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Mutande contro i militari

Mutande contro i militari

Birmania - Le donne nella resistenza nonviolenta al regime militare di Myanair sfidano una secolare cultura di subalternità e l'arroganza maschile del potere con iniziative concrete dei movimenti femminili e femministi

Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2008

Nel settembre del 2007 l’opinione pubblica mondiale ha potuto assistere ad un evento storico di enorme portata simbolica: la contestazione nonviolenta di migliaia di monaci lungo le strade di Rangoon ed altri sessantasei centri della Birmania. La protesta era stata avviata già dal 19 agosto dall’ampio movimento civile di opposizione al regime, che nel 1988 ha fondato la Lega Nazionale per la Democrazia e dal 1990 ha all’attivo un governo democratico in esilio.
A scatenare gli eventi di agosto e settembre 2007 era stato un ulteriore aumento dei prezzi di cibo e trasporti su un popolo già esasperato da più di quarant’anni di regime militare, che in nome della “via birmana al socialismo” ha schiacciato la popolazione con il terrore, ha imposto la legge marziale e ha istituzionalizzato il lavoro forzato, anche per donne e bambini. In seguito alla repressione del 26-27 settembre gli impianti statali per la cremazione hanno aumentato le loro attività per incenerire i corpi delle centinaia di monaci e civili uccisi, e le carceri si sono riempite di nuovi prigionieri politici, che già a settembre erano più di 1800, settecento in più rispetto all’anno 2006. (per aggiornamenti: www.aappb.org).
Le vicende birmane catturano tutta la nostra attenzione per via della presenza carismatica di Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione democratica e Premio Nobel per la pace agli arresti domiciliari da dodici anni, e per via del grande portato simbolico di vedere migliaia di monaci (che hanno connotato la protesta di una dimensione spirituale e nonviolenta) e persone completamente disarmate sfilare in avversione ad un regime armato fino ai denti. Quello birmano è l’esercito più potente dell’est asiatico e non esita a reprimere la dissidenza con maltrattamenti, incarcerazioni, torture ed esecuzioni. Un altro motivo di curiosità è l’utilizzo di gesti simbolici da parte degli oppositori al regime, come ad esempio la campagna internazionale rivolta a provocare la superstizione dei militari, convinti che il contatto con biancheria intima femminile può privarli del loro potere. La provocazione consiste nell’inviare mutande a palazzi del governo ed ambasciate (lannaactionforburma.blogspot.com).
Questo tipo di gesti simbolici la dicono lunga sulla componente “gender” sia della repressione che della resistenza. Da una parte il regime militare di Myanair poggia la propria arroganza su una cultura ed una condizione sociale di subalternità femminile e utilizza l’abuso sessuale e la violenza contro le donne come ulteriore strumento di terrore, dall’altra parte va rilevata l’imponente presenza femminile nelle organizzazioni democratiche di opposizione (con ruoli anche di leadership) e nella formazione di specifiche organizzazioni femminili e femministe.
Per conoscere la storia delle donne attive nella resistenza consiglio la lettura del bellissimo libro “Il pavone e i generali. Birmania: storie di un paese in gabbia” (Baldini Castoldi, 2007), in cui Cecilia Brighi, in uno stile narrativo che intreccia la storia del Paese a quella individuale, racconta le vicende esistenziali di singole persone, “sempre molto sorridenti, calme e piene di energia” che “tra difficoltà quasi insormontabili svolgono attività politica in esilio, molti in Thailandia, nel sindacato, nelle organizzazioni democratiche o nel governo birmano in esilio, fuggiti dal proprio paese in modo rocambolesco”.
Ma nascoste dall’occhio inquisitore di una delle dittature più violente del mondo vi sono anche molte organizzazioni rivolte ai diritti delle donne, che hanno una loro visibilità su internet. In particolare esiste una Lega di donne Birmane (www.womenofburma.org), attiva dal 1999, che raccoglie dodici organizzazioni femminili provenienti da differenti origini etniche. Il loro impegno è rivolto all’empowerment e al miglioramento della condizione delle donne, a favorire la loro partecipazione in tutte le sfere della società e a metterle in grado di partecipare effettivamente al movimento per la pace, la democrazia e la riconciliazione nazionale. Attività della Lega sono: sostenere le prigioniere politiche procurando loro degli avvocati, svolgere un incessante lavoro di ricerca e documentazione, organizzare dei corsi di formazione rivolti alle donne per rafforzare la loro autostima. Su internet è possibile consultare una interessantissima pubblicazione dal titolo “Overcoming Shadows” scritta e redatta dalla Women as Peacebuilders’ Team (davvero una “squadra di costruttrici di pace”!) insieme alla Lega. Nella premessa del libro le curatrici ci tengono a precisare che le storie raccontate non sono “solo pensieri, ma azione”. Sono storie di donne che stanno facendo esperienza di un mondo diverso in cui loro sono protagoniste di cambiamento.
Scopo di questo libro è mostrare i risultati di due corsi di formazione rivolti ad uno stesso gruppo di donne a distanza di un anno l’uno dall’altro rivolto a donne birmane (sia in esilio che no) e tenutosi in Thailandia. Il libro è composto da una prima sezione, in cui le ventidue partecipanti raccontano in prima persona, e “a partire dai loro cuori”, le loro storie personali, condizionate da una diffusa cultura patriarcale, e da una seconda sezione in cui le stesse donne confrontano il loro modo di percepire se stesse prima e dopo il momento formativo facendo uso di metafore tratte dall’ambiente naturale.
Le storie sono tutte molto toccanti e verrebbe voglia di raccontarle una ad una. Sono storie di cambiamento di donne poco coraggiose, a volte terrorizzate dalla violenza maschile. “Sono cresciuta convinta - scrive una di loro - che al mondo ci fossero due tipi di esseri umani: le donne alla mercé del cattivo comportamento degli uomini, e gli uomini che abusano sessualmente le donne come e quando vogliono”. La maggior parte delle partecipanti sono ragazze abituate ad avere una scarsa stima di sé e che, imparando a riflettere sulle proprie vite e a raccontarsi l’un l’altra, scoprono che è possibile “uscire dall’ombra”. “Mentre condividevo la mia storia nel gruppo - scrive Ywe - mi accorgevo che la mia voce tremava, ma mi sentivo liberata da un’ombra oscura”.
Yaung Lae Lae non è in esilio, ha passato il confine solo per frequentare il corso, dove è tornata a distanza di un anno, per riprovare ancora quella bellissima sensazione di essere parte di un mondo che cambia e crea cambiamento e per rafforzare la propria comprensione della sofferenza delle donne e, attraverso loro, di se stessa: “il corso mi ha portato a comprendere cosa vi è alla radice dei nostri problemi. Adesso io so che tutte le idee e credenze sono solo costruzioni umane che possono essere trasformate per migliorare la società. Ho anche capito che uomini e donne vivono in un ciclo di sofferenza dovuta ad un sistema patriarcale profondamente radicato”.
Thoo Lay Bo ha scelto come metafora di sé una violetta: “a differenza di altri fiori (in Birmania il fiore rappresenta la donna) questo piccolo fiore viola non spicca, ma è sempre bello. Ha resistito a rabbia, ignoranza, egoismo e oppressione. Se a questo piccolo fiore conferisco autorità, potrà continuare a fiorire, nonostante l’oppressione maschile, e la sua vita potrà trovare una autentica pace”.
Le organizzatrici di corsi come questi (che sono molti sparsi per il globo e che, soprattutto quando localizzati nel sud o in parti del mondo depresse, meritano tutta la nostra attenzione), partendo dal presupposto che “niente è immutabile e che ognuno di noi ha un ruolo nella formazione e nella lotta per un mondo migliore senza più violenza contro le donne o altri”, invitano tutte e tutti noi a guardare ai loro sforzi, alle loro trasformazioni e ad avere fiducia e speranza nel progresso umano.
Le donne birmane impegnate per i diritti delle donne, sia attraverso campagne politiche rivolte al cambiamento della politica e delle leggi sia attraverso il rafforzamento e la formazione individuale, sono persuase che la rivoluzione della Birmania debba passare attraverso un processo di trasformazione, collettiva e individuale, in cui la componente di genere abbia una rilevante importanza, e in cui le donne siano protagoniste. Conoscendo il tipo di personalità della leader del prossimo governo democratico birmano (su di lei consiglio la lettura del breve saggio di Cecilia Brighi in “La nonviolenza delle donne”, a cura di Giovanna Providenti, Lef Ed), abbiamo fiducia che questo possa essere possibile.
(Le immagini pubblicate sono tratte dal sito http://lannaactionforburma.blogspot.com/ )


(18 marzo 2008)

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