Professione donna - Mi ricordo bene cosa significa essere clandestini e vivere con la paura di essere arrestati
Dalla Negra Cecilia Lunedi, 07/03/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2011
Mihaela Chirita, 33 anni, è una delle infermiere che svolgono un lavoro prezioso all’Inmp (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà) presso l’ospedale San Gallicano di Roma. Un luogo dove mondi, lingue e culture si incontrano e si intrecciano in un mosaico complesso e colorato. È arrivata in Italia dalla Romania 10 anni fa, per raggiungere un marito dal quale ha poi divorziato. Per “morire, rinascere e ricominciare da zero” ha dovuto imparare una nuova lingua, lavorare, studiare. E lottare contro il pregiudizio di un Paese in cui troppo spesso l’assimilazione tra donna straniera e prostituta è scontata. Una donna forte, determinata, che oggi rivendica con vigore il proprio percorso.
Mihaela, quanto è difficile trovarsi sola in un paese straniero alla ricerca dell’integrazione?
Tantissimo, soprattutto per riuscire a realizzare i propri obiettivi andando avanti dignitosamente, senza accettare compromessi. Per una donna è sempre difficile, ma per quella straniera lo è un po’ di più. Sono arrivata in Italia per seguire mio marito, da cui poi ho divorziato. Sola e senza conoscere il posto e la lingua, ho dovuto mantenermi lavorando come cameriera in un albergo per 7 anni. Ma sognavo di diventare infermiera, e così sono riuscita ad iscrivermi all’Università di Tor Vergata. Per pagarmi gli studi facevo le pulizie di mattina e assistevo gli anziani di notte. È stata dura, ma ce l’ho fatta seguendo un percorso onesto e lottando contro i pregiudizi degli uomini italiani, che spesso della donna straniera hanno un’idea sbagliata. Non è semplice emergere professionalmente con le armi giuste, senza perdere la dignità. Spesso non puoi permetterti neanche il lusso di essere te stessa. Credo che sia così per ogni donna, costretta a superare una sorta di barriera culturale.
Quali sono le responsabilità che oggi senti maggiormente, e cosa ti spaventa di più?
Quelle verso i miei pazienti, che cerco sempre di aiutare come posso, soprattutto le donne più disagiate. Mi preoccupano il razzismo che vedo nei loro confronti e le condizioni in cui sono costrette a vivere. Incontro ogni giorno donne che hanno sofferto moltissimo e che non hanno un futuro, e mi chiedo come sarà possibile che si integrino in questa società. Per me è diverso, io sono fortunata: ho una casa, ho avuto la possibilità di studiare e di costruire un percorso professionale. Ma queste persone come faranno? Mi ricordo bene cosa significa essere clandestini e vivere con la paura di essere arrestati. Non è semplice. Ecco perché difendo tanto il mio percorso: lo rivendico anche come donna e straniera, perché voglio che la gente abbia di noi un’idea migliore.
Cosa pensi che renderebbe più semplice la vita delle donne e cosa ti auguri per il futuro?
Certamente una maggiore solidarietà femminile, che sulla mia strada non ho sempre incontrato. C’è molta competizione perché emergere per una donna – tanto più se straniera – è molto difficile. Non solo dobbiamo lottare per raggiungere i nostri obiettivi, ma anche contro il pregiudizio degli uomini. In Italia sono una categoria molto più protetta e tutelata, e finiscono per sentirsi superiori. Ma ho grande fiducia nelle nuove generazioni, in un cambiamento di mentalità che porti le donne a capire l’importanza di farcela con le proprie forze, usando la testa, sentendosi al pari degli uomini soprattutto professionalmente. Le donne devono riuscire a sentirsi più forti, liberarsi dall’idea che famiglia e figli siano tutto. Farsi valere come persone, studiare tanto, e non cercare di ottenere risultati seguendo scorciatoie, altrimenti saranno sempre discriminate. In futuro, per quanto mi riguarda, mi auguro di riuscire a non cambiare, non perdere la mia umanità. Se perdo quella ho perso tutto.
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