Afghanistan - Rabi’ha Balkhi è una radio indipendente e Mobina Khairandish la dirige. Le donne si raccontano e ricevono consulenze legali “A mani aperte”
Antonelli Barbara Martedi, 10/04/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2012
Mobina Khairandish è la direttrice di Radio Rabi’ha Balkhi, un’emittente indipendente a nord dell’Afghanistan. Dove le donne si raccontano e ricevono consulenze legali.
Frequenza 89,7 FM, sono le 9 di mattina. Da un appartamento di due stanze al secondo piano di Barat Market, un edificio adibito a centro commerciale nella città di Mazar-e-Sharif, a nord del paese, la voce di Mobina Khairandish raggiunge oltre 300mila persone a settimana, per lo più donne. “A mani aperte”, il programma radiofonico che per tre giorni a settimana si rivolge alle donne afghane per aiutarle a cambiare le proprie condizioni di vita, è una sua creatura.
“Frequentavo la scuola nella provincia di Balkh e vedevo continuamente ingiustizie e violenze contro le donne. Ricordo di aver iniziato a provare tanta rabbia e indignazione. Mi chiedevo perché nessuno si attivasse per cambiare le cose”. Così il suo programma è diventato uno spazio di libertà ed espressione, dove le donne possono raccontarsi, ascoltare altre storie, ricevere consigli e consulenze di tipo legale. In un paese dove l’analfabetismo interessa il 30% della popolazione (anche maggiore nelle zone rurali) e solo il 13% delle donne nel paese sa leggere e scrivere, il potere della radio è enorme. Lo avevano capito anche i talebani, che sebbene avessero vietato la Tv e la musica, avevano fatto delle trasmissioni radio il maggiore strumento di propaganda.
E sicuramente lo ha capito Mobina. Trenta anni, moglie e madre di un bambino di quasi due anni, una laurea in giornalismo e un passato da reporter, Mobina è da quasi 8 anni alla direzione di Radio Rabi’ha Balkhi, una delle prime stazioni indipendenti nata dopo la caduta del regime talebano. “Siamo la radio più seguita in tutta la regione nord orientale dell’Afghanistan. Il mio paese ha vissuto tre decenni di guerra civile. E come sapete non è ancora finita. L’analfabetismo è la regola. Soprattutto per le donne. Volevo raggiungere e parlare al maggior numero possibile di afghane. Per questo motivo l’idea della radio mi sembrava la più indicata”.
Nemmeno il nome dell’emittente è scelto a caso. “Lo abbiamo scelto per ricordare una poetessa afghana uccisa brutalmente dal fratello”. E anche il primo giorno di trasmissione della radio, l’8 marzo 2003, è fortemente simbolico. Nel 2008, con il supporto di ActionAid, una ong internazionale che è presente nel paese dal 2002, Mobina ha seguito una formazione come consulente paralegale e i 40 minuti della durata di “A mani aperte”sono diventati uno spazio “on air” dove si discutono problemi e aspetti quotidiani della vita delle donne e si ricevono consigli legali in tre lingue, pashto, dari e ozbek. Le donne possono conoscere quali strumenti la legge mette a loro disposizione per la salvaguardia dei loro diritti, quali azioni legali possono essere intraprese per renderli effettivi, come cambiare un sistema sociale che stritola il loro ruolo e la loro identità. Mobina cerca di semplificare il linguaggio tecnico delle leggi, per avvicinare le donne afghane al diritto. “Parto sempre da episodi di vita vissuta. Evito di fare nomi e cognomi. Non voglio esporre le mie ascoltatrici al rischio di ritorsioni. Violenze, matrimoni forzati. Umiliazioni, abusi e privazioni. Sono tutte storie comuni alla maggior parte di noi afghane”. Dietro i nomi inventati di Amina, Farida, Habiba, Sharifa, Jamila, ci sono i volti di vite violate e diritti negati. “Insieme alle mie ascoltatrici impariamo a risolvere i problemi attraverso gli strumenti del diritto”. Radio Rabi’ha Balkhi è anche uno mezzo per diffondere le storie di donne che ce l’hanno fatta, che sono riuscite a far sentire la loro voce ed innescare un processo di cambiamento. Come Lamia, 55 anni, costretta a sposarsi quando ne aveva 11. Perché in Afghanistan più la famiglia è povera e prima le “femmine” devono andarsene di casa. Alla morte del suo primo marito, Lamia torna a casa del fratello e lui la costringe a sposare un altro uomo. Una, due, tre volte: tre matrimoni forzati, considerata una merce di scambio. E per tre volte è rimasta vedova. Un giorno è venuta a conoscenza del programma di Mobina, ha cui ha confidato la storia delle sue figlie. La prima è stata portata via dalla famiglia del primo marito e non l'ha mai più rivista. La seconda è morta dandosi fuoco: non poteva più sopportare le violenze del marito. La terza ha avuto quattro figli, ma nessuno di loro è sopravvissuto, morti tutti appena nati. L’ultima è sposata con un uomo che la tratta come una schiava. Lamia spera che la vita delle sue figlie possa cambiare: grazie a Radio Rabi’ha Balkhi, una di loro è già parte del programma di assistenza legale. Anche Mobina ha dovuto combattere con forza, non contro il marito, che anzi le fa da interprete in inglese, con chi la chiama dall’estero per intervistarla, ma nell’ambito degli spazi pubblici, a scuola, all’università e poi in ambito lavorativo. “Quando ActionAid ha proposto il riconoscimento ufficiale del ruolo di consulente paralegale per me e le mie compagne di corso, le autorità si sono opposte. Finché lavoriamo su base volontaria non c’è problema. Se venissimo ufficializzate però la nostra azione sarebbe più incisiva. Questo, evidentemente, è considerato una minaccia”. “Sono determinata a continuare la mia battaglia radiofonica per il cambiamento. Voglio che i diritti di noi donne afghane siano riconosciuti”. E la strada è davvero lunga. Ancora oggi i matrimoni forzati e con giovani minorenni sono una prassi comune. E una donna che scappa di casa per sottrarsi alla violenza del marito, è accusata di disonore verso la famiglia e le viene negato di vedere i suoi figli. Secondo i dati diffusi dal recente rapporto di ActionAid, l’87% delle donne afghane è vittima di violenza domestica; il maggior timore delle donne sotto ai 30 anni è la violenza sessuale (40% delle intervistate) e le donne di tutte le fasce d’età interpellate hanno più paura della violenza (30% delle intervistate) rispetto a possibilità di rapimento o di essere vittime di un attacco di guerra (24%).
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