Medicina al servizio - Marta Cavalli, trenta anni e specializzanda in chirurgia generale, racconta la sua esperienza in Ghana. E non solo....
Melchiorri Cristina Domenica, 08/09/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2013
Marta Cavalli ha trenta anni ed è specializzanda in chirurgia generale. “Ho scelto di fare il medico perché mi è parso un lavoro nel quale potevo esprimermi al meglio. Ho sempre amato le scienze e le persone. Per me essere medico ha sempre significato fare il chirurgo, cioè usare le mie mani per risolvere un problema di salute”. A partire da questa premessa le abbiamo rivolto altre domande.
Come è nato il tuo interesse per le missioni umanitarie?
In ospedale c’erano medici che ogni anno partivano e tornavano entusiasti. Ho voluto provare. La mia prima volta è stata nella Repubblica Domenicana, al confine con Haiti, nel 2005. Non ero ancora laureata e ho voluto mettere alla prova me stessa e la mia vocazione. Siamo arrivati, con altri medici americani, in un compound organizzato da un prete. C’era una chiesa, un dormitorio, un refettorio e due piccole sale operatorie. I medici del posto avevano raccolto una lista d’attesa di pazienti. Pensa che fra le prime cause di morte ci sono ernie e patologie dell’apparato addominale. Ci alzavamo alle sei. Colazione, Messa e poi si iniziava ad operare fino al calar del sole. Ricordo una bambina di sette anni che non camminava per un’ernia inguinale, che dopo l’intervento si è alzata ed è corsa dagli amici.
Sei stata anche in Africa?
Sì, in Ghana. Lì la struttura era ancora più rudimentale, con problemi di organizzazione e di sterilità degli strumenti e dei locali. Spesso i bisturi non tagliano. Noi portiamo farmaci, reti per ernie, garze. Il personale locale è scarso, l’anestesista non esiste, è la levatrice che fa sedazioni, ma certo non anestesie generali. Interveniamo su ernie, traumi da incidenti stradali. Una volta un paziente si è svegliato durante un intervento.
Qual è il rapporto con i medici locali?
Non siamo lì solo per operare. Cerchiamo di trasmettere tecniche e know how, di lasciare qualcosa di utile per chi resta.
E tu cosa ti sei portata a casa da queste esperienze?
Il senso profondo di fare il medico. In Italia ti scontri ogni giorno con la burocrazia, con il vincolo dei costi. A volte con gli stessi pazienti, con quelli che considerano l’intervento secondario rispetto al loro contesto sociale e lavorativo. Nelle missioni intervieni anche su 150 pazienti in 5 giorni lavorativi. Sei stanca ma hai fatto la differenza.
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