La Donna del mese - Un’intervista a Miriam Makeba del maggio 1990 mai pubblicata prima: "domande e risposte battute a macchina sono rimaste al buio per molti anni..."
Mirella Caveggia Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2009
E’ un’intervista a Miriam Makeba del maggio 1990 che non è stata pubblicata. Domande e risposte battute a macchina sono rimaste al buio per molti anni. Semplici appunti di un'emozione condivisa che oggi trasporto sulla tastiera di un computer senza correzioni per ricordare la grande cantante scomparsa.
Nell’atrio dell’albergo che la ospita, Miriam Makeba cammina con il passo lento e strascicato delle donne della terra africana. Si stenta a credere che questa signora dalla voce sommessa e modesta nel vestire, sia l’artista sudafricana che per trent’anni ha cantato con incandescenza la rabbia, la speranza, la rassegnazione della gente di colore segregata dall’apartheid. Eccola seduta, “Mama Africa”, la voce calda e aspra di tante emozioni compresse: ha i capelli cortissimi, il volto nudo. Indossa una maglietta felpata su pantaloni neri sformati dall’uso. Dei costumi di scena e delle acconciature sontuose che hanno reso famosa la cantante di “Pata Oata” neppure l’ombra.
All’accenno della tragedia, perchè di tragedia si tratta, che si è consumata nel suo Paese, il Sudafrica, abbassa gli occhi. “La gente teme quello che le è sconosciuto. L’incontro è la chiave di rapporti migliori. Ma gli esseri umani non impiegano abbastanza tempo per accostarsi gli uni agli altri. Forse, se gli uomini che reggono i destini dei popoli avessero una precisa politica di contatti fra i giovanissimi di diversi paesi… chissà, forse avremmo un domani migliore. I bianchi in Sudafrica non hanno mai speso un frammento del loro tempo per conoscere veramente come vivono i neri e dove. Durante la mia infanzia, mia madre lavorava a Johannesburg come domestica in una famiglia. Una volta sola a settimana le era consentito di tornare a casa. Nessuno, mai, nemmeno dopo anni di servizio, le ha mai rivolto una domanda di carattere personale. Negli egoismi, nella disattenzione, nell’indifferenza si radicano sospetti e paure”.
Ripercorre le memorie, racconta gli anni giovani con malinconia e distacco: la madre sempre assente, la nonna che la sostituiva, il canto, compagno di tante ore a casa, a scuola, in chiesa. Nei grandi occhi scuri e miti di Miriam c’è un’espressione di smarrimento e nel suo gesto una sorta di pudore quando rievoca il clima di violenza creato da un’ingiustizia immane, il dolore della sua gente spossata dal pianto, le leggi inspiegabili e aberranti che non hanno consentito a tutti gli uomini di vivere la loro dignità. Però non calca mai la mano, come se sentisse che la partecipazione dell’interlocutore è cosa remota. E forse è vero. Bisogna essere nati con la pelle d’ebano per dividere questa lacerazione insieme a lei, bandita da un governo di bianchi per avere fatto del suo talento vocale un’arma contro la segregazione.
L’odio ha spazio nei suoi sentimenti? “Penso che ci voglia più sforzo a fare una faccia brutta che a sorridere. Odio, risentimento, rabbia sottraggono tanto potenziale emotivo. Io non ce l’ho tutta questa energia da disperdere. Quando ho incontrato Nelson Mandela, mi ha detto: ‘Abbiamo deciso di negoziare con gli oppressori. Se non puoi dimenticare, cerca almeno di perdonare. Altrimenti non si approderà a nulla”.
Quando è venuta in Italia per la prima volta? “È stato nel 1959, in occasione della presentazione a Inezia del documentario ‘Come back, Africa’, dove sostenevo una parte vocale. Ricordo che percorrevo in automobile la distanza fra Aix-en-Provence e Venezia. Per strada ho visto donne bianche intente al raccolto e anche uomini bianchi che lavoravano sodo, trasportavano pesi, faticavano. Ne sono rimasta sbalordita. Nelle costruzioni della mia mente eravamo noi a fare i raccolti, noi a sgobbare, noi a strofinare. Giunta a Venezia, l’oggetto di curiosità ero io. La gente non era abituata ai neri. Mi aggiravo per la città, così, come sono ora, con un abbigliamento qualunque ed ero sconosciuta. Ma piccoli gruppi mi seguivano dappertutto, cercando di osservarmi da vicino. Avevo paura, credevo volessero farmi del male. Quando sono entrata nell’atrio del mio albergo, una donna con due bambini mi ha incalzato e si è rivolta all’impiegato del banco indicandomi. ‘La signora vorrebbe toccare i suoi capelli – mi ha spiegato lui -. ‘Sì, perché no?’ ho risposto sollevata. E la donna lo ha fatto. E anche i bambini, tutti con grande meraviglia, perchè i capelli al tatto non erano ruvidi. E i ragazzi mi hanno strofinato la pelle per accertarsi che n on si trattava di un colore applicato”.
Da allora, “l’imperatrice della canzone africana” il raccolto l’ha fatto lei, di successi. Fra i tanti, quello strepitoso con Harry Belafonte, che proprio a Venezia l’aveva notata. Ovunque nel mondo dove lei ha rappresentato un richiamo assoluto. L’hanno voluta incontrare Hailé Selassié, Fidel Castro, John Kennedy e François Mitterrand. Eppure lei appare intimamente avvilita, stanca velata da un’ombra di tristezza.
Quando si chiude alle spalle la porta di una camera d’albergo si sente sola, le mancano le radici, le brucia l’esilio. “La mia mente è sempre laggiù, nel paese più bello della terra, a casa mia. Mi ripeto che un giorno tornerò per non piegarmi allo scoraggiamento Ma il processo verso la democrazia si annunci lento. Qualche volta è tutto così oscuro che temo di morire prima”.
Anche gli Stati Uniti l’hanno esiliata? “Non è proprio così. Quando ho sposato nel ‘68 Stokeley Carmichael, un rappresentante dell’ala radicale, nel mondo dello spettacolo c’è stato qualche irrigidimento, ma mai in ambito governativo. I miei due nipoti sono nati in America”. La figlia, madre di quei due bambini, è morta cinque anni nell’85 in Guinea, il Paese che ha delegato Miriam Makeba a rappresentarlo alle Nazioni unite. Al dolore del suo popolo di cui si è fatta carico si è aggiunta questa pena silenziosa, tutta sua. Ma lei è una donna forte: volentieri si apre al sorriso e spesso lascia affiorare nel suo discorrere una vena di umorismo. “Deve essere così, altrimenti non si trasmette niente. Il pubblico è calore, energia, carica per l’artista. È del contatto umano che tutti abbiamo bisogno , in ogni aspetto della vita . Non siamo isole…e anche le isole sono circondate dall’abbraccio dell’acqua”. La sera Miriam Makeba canta il suo repertorio che è una miscela di musiche folk, di ritmi latini, di jazz. Ma soprattutto i canti della sua Africa. Modula con ondulate dolcezze la sua voce calda, ne trae colori, imprime ritmi che non hanno bisogno di accompagnamento strumentale. Nel suo corpo pieno, avvolto di costumi fastosi o tradizionali, c’è una ruvida grazia. La sua umanità rassicurante rivela perché un bimbo cullato fra le braccia di una donna di colore i addormenta sereno. La sua passione e il suo invito sono fervidi e irresistibili mentre canta “Love and Freedom”, amore e libertà. La vita adesso è nel futuro, dicono i versi.
Lascia un Commento