Venerdi, 21/04/2017 - È un libro che si legge tutto d’un fiato, non per la sua semplicità, ma al contrario per l’intensità delle storie. Cinque storie di donne abusate dai propri compagni. Stiamo parlando del libro “Mi chiamo Eva” Sololetture edizioni, dell’avvocato cassazionista del foro di Lecce Paolo Maci. Nella intervista come redattrice di Inondazioniweb mi sono rimaste impresse le sue parole: “Spero che questo libro possa portare ad una battaglia comune, cioè ad una cultura di liberazione della donna, iniziando dal racconto di cinque donne sprofondate nella spirale dell’odio e persecuzione, ma che hanno avuto il coraggio di liberarsi da sole del loro aguzzino, per riprendersi la dignità e libertà violate. Dobbiamo sempre schierarci, la neutralità favorisce l’oppressore, mai la vittima; il silenzio aiuta il carnefice, mai il torturato, quello che è costretto a subire non solo violenza fisica ma anche sofferenze e umiliazioni”. Sono dichiarazioni che l’autore fa presso la ex caserma Rossarol di Taranto, sede dell’università degli studi di Taranto, invitato dalla presidente di DonnAaSud di Tiziana Magrì.
Nella prefazione Maci dice subito al lettore che le storie vorrebbe raccontarle come se fosse “lei”, capire come una donna cada nella spirale dell’amore malato, in un imbuto che la porta sempre più giù e non le fa muovere né braccia né gambe. Capire la forza della donna che decide di raccontare la sofferenza nella sua famiglia, il nido che doveva amarla e proteggerla. “La tua amica ha fatto mille telefonate al marito, tu a me niente. Avevi altro da fare sicuramente”, e partono le offese a raffica. La toga come sfogo, come lacrime da asciugare; la toga come ultimo scoglio per risanare umiliazioni e credere ancora nella giustizia.
L’amore folle e ossessivo non lascia via di scampo alla vittima. Lo confonde per troppo amore e ne rimane imprigionata. È uno dei più oscuri temi del genere umano perché fonde innamoramento e umiliazione, passione e prevaricazione. Le donne ne sono ferite ma alcune trovano la forza di reagire chiedendo giustizia nelle aule del tribunale. Qui essere credute è importantissimo anche perché non ci sono testimoni, dato che le umiliazioni si consumano nelle pareti domestiche, dove il compagno è sicuro di farla franca. A volte le offese sono sussurrate nell’orecchio della vittima: “Ti faccio fare una brutta fine”. Oppure vengono manipolati i fatti: “Io? Non ti ho detto nulla, dormici sopra; non ti seguivo, facevo solo un giro”. L’amore che diventa manipolazione, senso di onnipotenza. Il tentativo di annientare o destabilizzare la vittima, o addirittura confonderla, sono processi consueti dell’abusante. La donna matura a poco a poco l’idea di riprendersi la libertà totalmente scippata dal compagno di vita, che ne fa ciò che vuole decidendo per lei.
Questi gli elementi comuni delle cinque storie raccontate da Maci simili a migliaia di storie di donne, alcune raccontate altre no, per paura, pudore, difficoltà economica.
Storie di chi ha vissuto e vive ancora la fanghiglia viscida del possesso fino alla fine dei loro giorni, storie di chi è riuscita a liberarsi per sentire l’odore fresco e cristallino della libertà. Da leggere.
Lascia un Commento