Mutilazioni Genitali Femminili - La risoluzione ONU non è vincolante ma è importante per spingere i singoli Paesi ad approvare leggi contro questa violenza sulle bambine
Antonelli Barbara Domenica, 24/02/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2013
C’è chi lo ha definito un decrepito carrozzone. E chi ne invoca da anni lo smantellamento o la riforma. Eppure a poche settimane dalla fine del 2012, le Nazioni Unite hanno dato prova di coraggio con due atti che gran parte della società civile si aspettava: l’ammissione della Palestina come stato osservatore e la messa al bando delle mutilazioni genitali femminili. Con un colpo di martello, “it is decided”: dopo dieci anni di campagne da parte di Stati, governi, associazioni e ONG, l’Assemblea Generale ONU a dicembre 2012 ha adottato una risoluzione che mette al bando le cosiddette MGF (mutilazioni genitali femminili), il nome che viene dato ad un insieme di pratiche che mutilano i genitali femminili in modo parziale o completo, presenti in 28 Paesi africani. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che suddivide le mutilazioni in 4 tipi differenti a seconda della gravità degli effetti, le mutilazioni genitali hanno segnato la vita di 140 milioni di ragazze e donne, e 3 milioni di bambine sono a rischio ogni anno. Le percentuali sono altissime in Paesi come il Gambia, Djibuti, Somalia e Sudan (80-90% delle donne le subisce), il 92% in Mali e il 28% in Senegal. Ma anche in Paesi come l’Egitto, dove è in vigore una legge che ne rende illegale la pratica, il numero delle donne mutilate è rimasto elevato. Pur costituendo una lesione alla vita sessuale e alla salute delle donne, con conseguenze molto gravi sia sul piano fisico che psicologico e rischi per la salute riproduttiva delle donne (ma anche conseguenze immediate come emorragie o infezioni), le MGF costituiscono un fenomeno complesso che coinvolge non solo aspetti religiosi (infatti sembra che la pratica risalga al periodo preislamico) ma anche culturali e tradizionali (e infatti le mutilazioni vengono eseguite anche in età differenti a seconda della tradizione locale e sono ritenute una tappa fondamentale perché la donna si inserisca in un contesto sociale in cui la sua sessualità è tenuta sotto controllo). Un fenomeno anche culturalmente accettato da molte donne, viste le affermazioni con cui la consigliera egiziana per i diritti delle donne, Omajma Kamal (eletta nel governo Morsi), lo scorso settembre ha paragonato le mutilazioni genitali ad “un intervento di chirurgia plastica”, suscitando lo sdegno e le critiche di molte associazioni di donne nel mondo arabo. Di fatto poi, le MGF costituiscono un giro di soldi non indifferente, perché le levatrici tradizionali o le ostetriche che le praticano, sono pagate profumatamente, dal momento che si tratta di operazioni che mettono in serio pericolo la vita delle donne. Sebbene la risoluzione ONU non sia in alcun modo vincolante è un passo importante, innanzitutto perché depositata dal Gruppo dei Paesi Africani e perché sostenuta dai due terzi dei Paesi membri delle Nazioni Unite, tanto che l’adozione è avvenuta per consenso; ma anche perché inquadra le mutilazioni genitali in un approccio più globale, che si spera porterà all’approvazione di legislazioni contro tali pratiche, nei singoli Paesi. Come ha ricordato Emma Bonino, Vicepresidente del Senato della Repubblica e da sempre impegnata su questo tema, in un editoriale pubblicato sul New York Times, la risoluzione è il frutto del lavoro di molte ONG negli ultimi anni e di molti Stati membri ONU che hanno portato avanti campagne a difesa dei diritti delle donne, in particolare Italia e Burkina Faso che sono stati molto attivi su questo tema. Con l’aiuto della Bonino è nata “StopFgm”, la campagna internazionale che si batte contro questa pratica, portata avanti dalle ONG “Non c’è Pace Senza Giustizia” e da “Aidos”
(Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo, che da vent’anni è impegnata su questo fronte.
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