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Memoria. Verità. Adriana. Nomi di genere femminile

Memoria. Verità. Adriana. Nomi di genere femminile

Dalla viva voce - Il dire e il fare delle donne nella lotta alle mafie

Rosa Frammartino Lunedi, 11/01/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2010

Adriana Musella è la figlia dell’ingegner Gennaro Musella, vittima di ‘Ndrangheta. La incontro a Firenze per il vertice dell’antimafia al quale partecipa come Presidente del Coordinamento antimafia Riferimenti (sito: www.riferimenti.org)



Adriana che cos’è per te la parola memoria?

Una mattina di maggio, una strada, un palazzo sventrato e tanta folla. È l’immagine che mi si è presentata davanti agli occhi il 3/5/1982, quando in aereo sono arrivata a Reggio Calabria. Mi avevano detto di rientrare perché mio padre non si sentiva bene. La verità non era questa. Quel mattino mio padre era saltato in aria sotto casa ed era stato fatto in mille pezzi. Ricordo la moltitudine di gente che si accalcava intorno alla carcassa della macchina. La mia corsa verso casa, la porta aperta, lungo le scale ancora tanta gente. Mi precipito in camera da letto pensando di trovarci mio padre, ma il letto è vuoto. In mezzo a tanta gente, mia madre che mi dice “papà non c’è più”. Così so la verità.

Quanti anni avevi?

Avevo 26 anni e mi trovavo a Roma per una visita di controllo al mio bambino che non stava bene. La mattina sono stata svegliata da una telefonata “Corri subito a casa perché papà non sta bene”. Rimasi un po’ perplessa. Avevo sentito papà la sera prima e mi aveva incaricata di sbrigare a Roma una cosa per lui, per cui non credo a questa prima versione. Richiamo casa mia, ma mi rispondono persone estranee. Vado subito in agitazione e riprovo finché mia sorella mi dice che avevano sparato alle gambe a papà e che dovevo rientrare subito. Il viaggio da Roma a Reggio è stato lungo come una vita.

Tuo padre temeva qualcosa?

Mio papà era un ingegnere; un imprenditore di opere marittime. Certamente aveva paura per noi figli, temeva il sequestro, ma non avrebbe mai pensato una cosa del genere. A Reggio aveva trasferito la sua impresa. Era il classico napoletano tutto cuore, generoso con tutti. Era il primo a scendere per strada quando accadeva qualcosa. A chi gli chiedeva “Come mai te ne sei andato laggiù?”, lui rispondeva che tra i calabresi ci sono più buoni che cattivi; che c’è tanta gente onesta. Un affetto per i calabresi che era ricambiato.

Perché è stato ucciso tuo padre?

Papà partecipa alla gara d’appalto per il porto di Bagnara Calabra. Vuole utilizzare le pietre di una cava acquistata per fare di Bagnara la seconda Positano e stimolarne lo sviluppo turistico.

Ma l’impresa Costanzo di Catania si aggiudica l’appalto con un ribasso enorme. Mio padre sporge denuncia alla Procura e la gara viene prima annullata e poi riproposta. Il 3 maggio dell’82 mio papà scende di casa, mette in moto e salta in aria. Nell’unica pagina dell’agenda sopravvissuta all’esplosione, macchiata di sangue, quella dell’8 maggio, mio babbo aveva scritto: gara del genio civile.

Che cosa lega la memoria alla ricerca della verità?

La memoria mi dà la forza per continuare. Ho fiducia nella giustizia e mi costituisco parte civile; ma dopo 7 anni la Magistratura di Reggio Calabria archivia il caso. Trascorrono 5 mesi. Sopraggiungono fatti nuovi, importanti e gravi che vedono la stessa Giunta Regionale coinvolta in uno scandalo per associazione mafiosa. Riesco a far riaprire il caso nonostante, anche da luoghi istituzionali, mi si inviti a “restare a casa” e non insistere con la mia ricerca di verità. Comincio a capire. La morte di mio padre non è solo legata alla mano che ha azionato la bomba, ma ad un sistema fatto di burocrati, funzionari, politici che avevano interessi da proteggere. Mi sono ribellata. Ho capito che la mia esperienza poteva aiutare altri a conoscere quel “sistema” di cui prima del tre maggio avevo solo sentito parlare. Ho capito che alla memoria di mio padre dovevo la verità.

Cosa ha significato per te conoscere Antonino Caponnetto?

Caponnetto, oltre che maestro, è stato per me un secondo padre a cui mi rivolgevo nei momenti di scoramento. Mi ha educato alla legalità. Devo all’incontro con lui la speranza e la forza che, dopo tanti anni, ancora mi porta a comunicare ai giovani i valori legati alla memoria e alla giustizia. Intorno a me, donna, c’erano tanto scetticismo e sfiducia. Caponnetto scese in Calabria e mi stette a fianco. Iniziammo a girare per le scuole; c’erano anche Gherardo Colombo, Piero Grasso, Piero Vigna.

La gerbera è il simbolo di questo impegno.

Mio padre amava le margherite e i fiori di campo. La gerbera è un fiore robusto come la gente del sud e giallo come il colore del sole. Questo simbolo accompagna tutte le azioni contro la mafia che mi aiutano a dare una senso al dolore che ha inesorabilmente segnato la vita mia e della mia famiglia.

Adriana, cos’è per te l’antimafia?

Non sono mai riuscita a spiegarmi il perché di tanta barbarie. Il medico che quel 3 maggio ne ha ricomposto il corpo ha detto che gli occhi di mio padre erano sbarrati. Certamente era morto senza avere il tempo di capire. Un conforto troppo piccolo per una ferita troppo profonda. Ma tanti anni sono passati. Il dolore si è lentamente sedato. Oggi per me l’antimafia è un sentimento.





(11 gennaio 2010)

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