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Memoria, ricordi e identità

Memoria, ricordi e identità

Intervista/ Laura Forti - Attrice e drammaturga, i suoi testi hanno vinto molti concorsi di teatro e sono stati tradotti e rappresentati in Italia, Francia, Germania, Austria e Svizzera

Bertani Graziella Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2005

Che cosa si può intendere col termine memoria?
Più che dare una definizione "neutra" posso riflettere su cosa questa parola porta con sé. Tutti, soprattutto le giovani generazioni, me inclusa, hanno sentito il bisogno di "ricordare", o meglio, di recuperare figure e fatti del passato, per definirsi artisticamente e personalmente. Penso al teatro, ai vari Celestini e Paolini, con le storie sulla guerra incentrate su personaggi familiari o sugli episodi "forti" che hanno scritto nel bene e nel male la vicenda del nostro paese. Aldilà del fatto che ritengo che memoria e identità artistica/esistenziale viaggino di pari passo e che quindi un viaggio identitario di qualunque tipo non possa che interrogare la propria origine, mi sembra che in tutto questo interesse per la memoria e le memorie avvenga quando si avverte un forte senso di perdita. E' come quando muore qualcuno: una parte di noi se ne va con lui e la nostra identità si incrina, si destruttura. Sentiamo il bisogno di ridefinirci, siamo confusi e alla ricerca, in un continuo disequilibrio che può essere anche creativo. Noi giovani generazioni siamo nate con questo senso di perdita e squilibrio, avendo mancato tutti gli avvenimenti e i movimenti decisivi che hanno caratterizzzato la cultura dei nostri "padri". Come possiamo dire di aver perso qualcosa che non abbiamo mai vissuto? Il nostro rapporto con la memoria dei padri è ambiguo. Parafrasando "Totem e Tabù" di Freud, possiamo dire che siamo in un continuo stadio di uccisione dei "genitori"/loro rimasticamento. E in questo eterno ribadire adesioni e prendere distanze ci siamo creati un'identità nostra, o meglio la stiamo cercando. Ma forse questo interesse per la memoria nasconde un malessere ancora più profondo e collettivo e credo che alla base ci sia una gran paura della morte, di essere cancellati. Credo che la nostra società sia morbosamente legata alla morte, al passaggio del tempo. Penso all'ossessione che abbiamo per ogni capello che cade, per ogni cellula che si sfalda. Nello stesso tempo corteggiamo la distruzione, il bisogno convulso di andare avanti: nuove tecniche, nuovo progresso. Si comprano continuamente nuovi computer, sempre più aggiornati. E, ho sentito ieri ad un'indagine alla radio, bianchi. Perché "il bianco è il colore del futuro", diceva l'esperta. Bianco come leggerezza, mancanza di peso, annullamento del colore. Il contrario del nero, pienezza, densità, acquisizioni. Quindi da una parte accumuliamo dati, dall'altra distruggiamo per riempire. Una specie di bulimia, mangiamo continuamente per risputare e rimangiare, senza concederci il lusso di una "pausa digestiva". In questo senso, l'interesse di questi anni per la memoria mi sembra un antidoto contro la morte, una specie di esorcismo.
Esistono tanti tipi di memoria, anche la memoria di genere?
Credo che la memoria a cui ci riferiamo sempre sia quella affettiva, personale: patrimonio di acquisizioni che ci definiscono come individui. C'è una memoria del corpo, che è quella che ci mantiene vivi e ci fa sopravvivere ai pericoli, c'è una memoria emozionale che sono i nostri ricordi privati, come noi abbiamo percepito il mondo fin dalle prime volte, i nostri fantasmi buoni e cattivi, le ancore che salvano e le zavorre che affondano. C'è poi una memoria storica e culturale: siamo in un mondo più vecchio di noi e che ci sopravvivrà, che ha dei valori e delle leggi creati da altri, con cui è necessario trovare un dialogo e un rapporto. Se per memorie di genere intendi una memoria femminile e una maschile... esistono dei condizionamenti culturali, creati nei secoli, che non possono non incidere sulla identità degli uomini e delle donne. Esiste una capacità femminile di dipanare i sentimenti, di interrogarsi, di farsi testimone. Ma le categorie mi fanno orrore. Esistono le persone, i percorsi.
Può memoria coincidere con identità?
Identità è una parola ambigua. Mi piace e non mi piace. Il pensiero che uno, a un certo punto della vita si fermi e dica "ecco, ora ho un'identità" mi fa rabbrividire. Perché identità diventa una parola chiusa e il viaggio è finito. Identità dovrebbe essere un paio di scarpe per viaggiare nel mondo, non il piede. Le scarpe sono funzionali al viaggio, ma il piede è il mistero, sceglie la strada. Scegliamo scarpe adatte perché conosciamo sempre meglio il piede, ma non sappiamo dove andremo. Magari in un prato e ci andrà di camminare scalzi. Quando penso all'immagine delle scarpe mi viene in mente la fiaba di Andersen, "Scarpette rosse", ma più che alle scarpe che la bambina si fa comprare dalla ricca signora e che poi la portano alla rovina, per me le "scarpe identitarie" sono quelle che aveva prima, che si era costruita da sola, non belle ma proprie, frutto di un lavoro personale. La costruzione delle scarpe è parallela al percorso, alla lunghezza della strada, fatta e da fare.
Nel tuo caso specifico quanto la tua memoria la tua identità hanno inciso nelle tue scelte di vita?
Sono ancora alla fase A: dipanamento/affrancamento/scelta delle scarpe. Sarà per questo che ho scritto tanto della famiglia. Essendo poi ebrea, ho un rapporto ancora più complicato con la memoria, perché nel mio cammino identitario mi sono spesso imbattuta in fantasmi e avvenimenti che ricollegavano la piccola storia della mia famiglia alla Grande Storia, se non alle grandi tragedie (penso al periodo della shoah - un argomento al quale, come teatrante ho dedicato molti anni e molto sudore) e lì l'impegno del dipanamento è stato doppio. Ora sono in una fase nuova della mia vita, tutta aperta al futuro: mi è nata una figlia! Un'occasione importante per crescere, per ridefinirsi, per svoltare. Non voglio che mia figlia diventi l'anello di congiunzione di nessuna catena, anzi, sento il bisogno di farmi invisibile e di lasciarle spazio senza invaderla, appesantirla, limitare la sua libertà di essere chi vorrà.
Come consideri la tua scrittura? una scrittura di memoria, di genere oppure...?
C'è una bella frase di Cioran, filosofo ungherese: "non si scrive perché si ha qualcosa da dire, ma perché si ha voglia di dire qualcosa". La scrittura non può essere ideologica o "di nicchia", deve partire dal piacere, dal bisogno, dal cuore. Credo senz'altro che il legame con la memoria si sia naturalmente travasato anche nel mio lavoro drammaturgico, perché era un mio tema identitario forte. Ho scritto due testi : Pesach, storia di una famiglia che cerca di ritrovarsi e "guardarsi" il giorno della Pasqua ebraica - ma la memoria dolorosa della Madre, scampata alla shoah, copre le vite dei figli e impedisce loro di crearsi un'identità autonoma (c'è chi reagisce a questo facendosi buddista, chi cercando di assomigliarle recuperando la tradizione religiosa, chi invece chiudendosi in una sorta di solitudine dolorosa e impermeabile ai sentimenti) e "Dimmi", il testo che porto in giro come attrice prende spunto dalla domanda respinta di mia madre che ha presentato istanza di risarcimento in base alla legge Terracini per "ricostruire" la sua storia attraverso tre figure di donna che gravitavano nella casa che poi sarà requisita e distrutta: la bisnonna Aida, matriarca di stampo ottocentesco, portatrice della cultura popolare del ghetto e del sogno di integrazione tra ebrei e italiani sulle note del Nabucco di Verdi, la nonna Chaja, madre di mia madre, ebrea polacca e comunista, legata al mondo chassidico ma in aperta ribellione con l'ebraismo italiano assimilato, e infine mia madre-bambina-spaventata al tempo delle persecuzioni razziali. Io, l'attrice-figlia, cerco di ricostruire la storia prendendo su di me quello che mia madre non ha mai potuto o voluto raccontare (da qui il titolo "Dimmi"): i sentimenti - che sono rimasti inespressi o congelati per tutta una generazione di ex bambini che hanno dovuto rinunciare troppo presto all'infanzia e ai loro bisogni "normali". Perché senza quel lavoro di conoscenza dei propri sentimenti non ci può essere né identità, né memoria. Non ci può essere né trasmissione, né comunicazione. Mentre scrivo, mi accorgo di quanto questi testi, relativamente recenti, in fondo ormai non siano più in sintonia con il mio viaggio. Sono io, da qualche parte. Ma il mio interesse ora è già altrove. Sono proiettata in avanti, dove i piedi mi porteranno. Il nuovo si sta costruendo in questi giorni. Il nuovo è mia figlia che cresce, è il capello che si spezza, la cellula che si falda. Quello che porto con me, le mie acquisizioni, i ricordi, le cicatrici, la mia memoria appunto, mi permettono di affrontarlo, di guardarlo in faccia. Di provare a respirare, giorno per giorno, senza paura.


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