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Meglio se flessibili

Meglio se flessibili

Pensioni? - Intervista al Presidente del Cnel Aldo Amoretti

Castelli Alida Lunedi, 22/06/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2009

Aldo Amoretti, è stato per lunghi anni un dirigente della CGIL: in particolare ha diretto la categoria dei tessili dove la presenza femminile è, come sappiamo, molto elevata. Ora è presidente del Cnel. Lo scorso aprile ha partecipato alla Rete Nazionale delle Consigliere di Parità. Gli abbiamo posto alcune domande sul suo intervento che ha suscitato molto interesse.



Lei ha riferito nella sua relazione della partecipazione del Cnel, con un proprio documento, alla 53° sessione dell’ONU sulla condizione delle donne, nello scorso marzo. Ci vuol dire quali sono i punti salienti che caratterizzano l’occupazione femminile in questo periodo di crisi?

Nel documento “Le ripercussioni della crisi economica e finanziaria sull’occupazione femminile in Italia”, che è il risultato dell’elaborazione concorde del gruppo di lavoro sulle pari opportunità, si afferma che “è noto che esiste un rapporto positivo tra il tasso di attività delle donne e crescita economica del paese. Il reddito delle donne contribuisce non solo al benessere familiare ma anche alla massa fiscale e previdenziale, nonché alla domanda di servizi di cura alle persone che, per definizione (è importante notarlo), sono radicati nel territorio e non possono essere delocalizzati. In questo modo l’occupazione femminile attiva un circolo virtuoso che genera, oltre al reddito, anche occupazione e imprenditoria aggiuntiva. Occorre quindi mettere in campo tutti gli strumenti che consentano di sostenere, in questa fase di crisi, l’occupazione femminile (e in particolare di quei soggetti considerati svantaggiati ai sensi del Regolamento comunitario, come le donne in reinserimento lavorativo, disoccupate o inoccupate, che non godono degli ammortizzatori sociali classici), attraverso azioni di reimpiego come: sostegno al reddito della lavoratrice che non percepisce indennità o sussidi di disoccupazione, bonus alle imprese che assumono tali soggetti, attivazione di servizi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, azioni di riqualificazione (va in questa direzione il programma PARI attivato dal Ministero del Lavoro). Solo così sarà possibile non disperdere un patrimonio di lavoro e di imprenditoria femminile che ha contribuito in misura essenziale alla creazione di benessere nel nostro Paese”.



Lei non crede che esistano dei paradossi rispetto alla presenza femminile nel mercato del lavoro; si dice da più parti che le donne preferirebbero ad esempio il lavoro nero o che preferiscano lavori poco impegnativi o addirittura rimanere a casa con la motivazione che devono assistere figli o parenti anziani?


Vorrei fare qualche esempio e portare alcune osservazioni su tesi che sento ripetere e che non mi convincono affatto. Donne che preferiscono il lavoro nero a causa dei vantaggi fiscali per il marito monoreddito non ne ho conosciute se l’offerta era un lavoro regolare a tempo indeterminato. Certo la colf immigrata spesso preferisce avere un datore di lavoro al minimo di ore e tutto il resto al nero perché è stata abolita la possibilità di riavere i soldi versati all’Inps quando torna nel suo paese e considera, non a torto, improbabile avere una pensione per i contributi versati in Italia. Ci marciano talune braccianti con il loro sistema di indennità di disoccupazione? Ma certo che ci marciano come possono. Ma risulta che queste persone abbiano rinunciato al lavoro in una fabbrica se questo si presentava come una alternativa stabile invece che una occasione temporanea capace di revocare la condizione di prima per poi trovarsi con niente in mano? A me non risulta.

Ho invece conosciuto tante donne capaci fare salti mortali nel districarsi tra un lavoro in azienda anche con orari impossibili e la cura di una famiglia.

E so che in Italia abbiamo circa un milione di badanti, la metà in nero. E a questa cifra corrisponde un numero di poco inferiore di donne che destinano l’intero loro reddito o quasi per pagare la badante piuttosto che rinunciare al lavoro.

E so che in una delle mie vite precedenti, quando sono stato dirigente del sindacato dei tessili, a metà degli anni ottanta, ho ricevuto applausi per un contratto che riconosceva il diritto alla aspettativa non retribuita, senza contributi previdenziali e senza oneri per l’impresa, a fronte della necessità di cure nei riguardi di una familiare. In tutte le aziende si conosceva il percorso di donne che avevano dovuto dimettersi per curare un familiare e poi un duro percorso per trovare un altro lavoro.

E lo stesso nella vita successiva come dirigente del sindacato del terziario, quando il contratto delle imprese di pulimento, pur magro nei contenuti salariali, portò la norma di garanzia del mantenimento del lavoro nei casi di cambio dell’appaltatore. Anche in questo settore c’è un milione di persone, soprattutto donne e un 40% al nero. Fanno un lavoro non desiderato da nessuno e con gli orari più scomodi, ma lo difendono con i denti.



In ultimo vorrei conoscere il suo parere su un argomento che è molto spinoso e preoccupa molte donne e non solo le dipendenti pubbliche: quello dell’età pensionabile a 65 anni, dopo la sentenza della Corte Europea.


Sono fra i non pentiti della riforma del 1995 che porta il nome Dini. Aveva risolto il problema della regola uguale per maschi e femmine con la flessibilità. Ogni soggetto poteva scegliere quando andare in pensione tra i 57 e i 65 anni a seconda di condizioni e convenienze.

Per coloro che stavano nel vecchio regime retributivo c’era pure il diritto di opzione al contributivo. Ci si è poi accorti che taluni con retribuzioni alte e carriere sicure ci avrebbero guadagnato e allora si è abolito il diritto per tutti. E’ stata una sciocchezza e una cattiveria. Si poteva risolvere dicendo che chi optava non poteva ottenere una pensione di importo superiore a quella ottenuta con il calcolo retributivo e si lasciava una libertà in più alle persone.

Poi con la Legge di Maroni è stata abolita la flessibilità per gli uomini portando il minimo a 65 anni ed elevato il minimo per le donne portandolo a 60.

Oggi la soluzione ragionevole è tornare alla flessibilità per tutti. Si potrebbe avere un range tra 60 e 70 anni. Se i coefficienti di trasformazione sono onesti il sistema non costa niente perché ognuno si prende il suo in base a quanto versato e in base alle attese di vita. Non come con le pensioni di anzianità il cui costo è in parte a carico della collettività. Come del resto per le pensioni dei dirigenti delle imprese industriali la cui cassa è confluita nell’Inps non per amore di Cipputi, ma per mettere a carico di Cipputi il rosso del loro bilancio.



(22 giugno 2009)

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