Venerdi, 30/01/2015 - Siamo nel quartiere tiburtino di Roma, che annovera la presenza di numerosi artisti, che vogliono ricordare l’importanza dell’arte nella vita dei popoli. La mostra, la prima di un programma dello spazio “Officine Nove” aperto con il patrocinio di Roma Capitale, IV Municipio, affronta la complessa tematica del Mediteraneo, dell’emigrazione, degli sbarchi, quindi dell’immigrazione. Un doloroso e travagliato argomento che si tende a non vedere o a utilizzare a seconda delle convenienze, soprattutto di appartenenza partitica. La lettura che un artista può invece sviluppare è quella del linguaggio del cuore, senza perdere di vista la coscienza per la denuncia sociale del difficilissimo dramma umano. Come tutti i drammi non presenta una soluzione semplice e immediata, soprattutto per gli interessi che vertono sul mare mediterraneo e sul continente africano.
Il tema della “zattera della Medusa”, olio dell’800 realizzato da Géricault per commemorare il naufragio della fregata Méduse, che causò l’inutile morte di 134 persone, portò a uno scandalo internazionale e all’ascesa della carriera dell’artista. Molto lontani da quello spirito e dalla capacità d’immedesimazione nella sofferenza inutile e ingiusta di altri esseri umani, per fortuna l’arte ci viene incontro per ricordare che l’altro esiste e che potrebbe in qualsiasi momento della storia o della vita, essere anche uno di noi. Monika Pirone lo illustra bene con le sue videoinstallazioni, la prosa, le tele, dove il mare, simbolo di vita e di fertilità, può trasformarsi in un viaggio non solo di speranza, ma di morte. Il dolore, come richiamo alla coscienza, è il linguaggio consono all’artista, che non ama negare la realtà, ma conoscerla per elaborarla, restituendola a chi non ne possiede ancora gli strumenti per comprenderla a fondo, per conoscere tutta la verità.
Un artista che dagli anni ’70 prova a svegliare le coscienze è lo scultore Mimmo Pesce, che con il suo monumento al Mare Mostrum, puntualizza che le culture purtroppo s’incontrano non per lo scambio di cultura e di conoscenza ma nell’ambito di una politica di morte. L’Angelo della morte, un’imponente e seducente statua di gesso alta più di due metri e altri due metri di ali, da lui realizzata, al posto delle ali angeliche ha invece due falci di ferro, conservando però la bellezza della figura femminile dalle imponenti dimensioni. Proprio come la morte bella e avvenente della storia di Abramo –che chiese all’Angelo della morte di occultare il suo orrido lerciume e fetore con ogni bellezza e fragranza- “a fugare ogni dubbio sulla vera identità di questa creatura divina e sul compito che deve assolvere in Terra, vi è la presenza di uno scheletro umano poggiato su una spessa rete da pesca che la Morte sorregge come fosse la sua veste. Il ruolo di quest’Angelo, foriero di angoscia o privazione, esecutore, per mano di Dio, del passaggio all’Aldilà, viene poi ancora più enfatizzato dal nastro della polizia locale che, delimitando la scena, rimanda al crimine, all’atto dell’uccisione. L’osservatore però non è testimone del delitto, ormai perpetrato, ma oltrepassando il nastro e circumnavigando la scultura, entra nel dispositivo scopico attivato dall’installazione, divenendo attore della mise-en-scène creata dall’artista. Aggirandosi tra la Morte e il morto, raccoglie indizi, tracce, prove, come fosse chiamato a risolvere un caso. E così facendo scorge sul collo dello scheletro, tra gli stracci che lo ricoprono, una pesante collana di ferro, un monile su cui è scritto a chiare lettere il nome del defunto. Dopo aver rivelato il colpevole, che altri non è se non l’Angelo sterminatore, l’osservatore giunge infine a scoprire l’identità della vittima: l’Africa. …Mimmo Pesce racconta attraverso questo suo lavoro, la tragedia delle centinaia di morti annegati al largo delle nostre coste durante questi viaggi, che seducenti come la bella Morte di Abramo, perché confusi con la speranza di un futuro migliore, si rivelano terribili trappole, abbracci mortali” (Eva Ogliotti).
All’evento partecipa anche la fotografa Rossella Didio con una sua opera, una foto interessantissima del mare, un’imponente fotografia filtrata dalla visione dell’artista sui resti di un dramma.
La mostra è aperta fino al 15 Febbraio, dalle ore 17,00-19,00, presso Officine Nove, Via del Casale Galvani, 9 Roma.
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