Michele Grandolfo Domenica, 27/04/2014 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2014
Oggi è di moda parlare di medicina di genere. Si denuncia che la sperimentazione dei farmaci viene condotta non coinvolgendo il sesso femminile, soprattutto se in gravidanza. Il che può pregiudicare l’efficacia e la sicurezza, anche in relazione al dosaggio. Per inciso, in tali circostanze l’uso del termine “genere” è improprio. Si rivendica, quindi, la necessità che i farmaci e tutti gli altri interventi diagnostico terapeutici vengano messi a punto con sperimentazioni che coinvolgano il sesso femminile. Inoltre, si afferma che nelle analisi epidemiologiche sullo stato di salute delle popolazioni non si faccia adeguato riferimento alle differenze di “genere” riguardo le condizioni di salute stesse. Sulla prima questione, non c’è molto da dire se non che è più che comprensibile l’approccio cautelativo, soprattutto in gravidanza. Il rimedio spero non sia strumentalizzato per porre brevetti per farmaci rimodulati o risperimentati per tener conto della variabile sesso.
Sulla seconda questione si ha a che fare con errori epistemologici che riguardano anche altre condizioni, come l’occupazione, l’istruzione, la nazionalità. Ma è questo il punto focale? A mio parere, no. Il livello di sfruttamento del desiderio di sicurezza rappresentato da interventi diagnostico terapeutico inappropriati nel percorso nascita non ha uguali, nemmeno a confronto con quanto accade ad età avanzata. Quando si parla di medicina di genere non si entra mai nel merito dell’assurdità di considerare la gravidanza, il parto e il puerperio condizioni patologiche, quando invece sono nella generalità dei casi fisiologiche. In ogni caso l’assistenza ha senso se si sostanzia nella capacità di far emergere, promuovere, valorizzare, sostenere e proteggere le competenze della donna e della persona che nasce. Anche in caso di patologia l’esperto di patologia si deve limitare ad affiancare l’ostetrica, esperta della fisiologia, per tentare di ridurre i rischi legati alla patologia stessa. In caso di patologia è facile cadere nella trappola della delega e rinunciare a mettere in campo le proprie competenze. Nel percorso nascita gli interventi inappropriati assorbono ingenti risorse e producono danno, anche in termini di inibizione dell’espressione di competenza. Quest’ultimo aspetto è particolarmente deleterio perché nella gestione della nuova realtà determinatasi dalla nascita è necessario poter contare sulle proprie risorse psicofisiche, più che in qualsiasi altra circostanza. Il danno per la persona che nasce è incalcolabile a breve, media e lunga distanza. L’inibizione di competenza deve essere considerata come espressione del controllo dei corpi, quasi in risposta all’”arroganza” del movimento delle donne che rivendicava con successo l’autodeterminazione e l’autonomia (il corpo è mio e lo gestisco io). Attualmente non passa giorno che non compaia nella letteratura scientifica qualche articolo che dimostra il danno delle pratiche inappropriate nel percorso nascita. Ma si stenta a riconoscere gli “errori” come è esemplificato nel riconoscimento dell’importanza della vicinanza della mamma in caso di necessità di terapia intensiva neonatale, dopo essere stata brutalmente allontanata e si parla di canguro-terapia, non di mamma-terapia. Quando si parla di genere si deve riflettere sulle relazioni di potere piuttosto che di altro.
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