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Maternità e libertà, binomio scandaloso

Maternità e libertà, binomio scandaloso

Mamme nel Terzo Millennio / 1 - Perché le madri non fanno lobby e non lottano insieme per ottenere diritti. A partire dalla lezione di Simone de Beauvoir

Emanuela Irace Domenica, 15/04/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2012

Ci sono dei momenti nella Storia delle idee che diventano spartiacque. Punto di non ritorno. Cambio di paradigma. Quando nel 1949, per le edizioni Gallimard, Simone de Beauvoir dà alle stampe “Il Secondo Sesso” avviene un vero e proprio terremoto culturale. Non tanto per l’opera in sé che per la prima volta in chiave filosofica, esistenzialista, analizza la condizione femminile nella sua totalità, affrontando con piglio analitico le innumerevoli sfaccettature del vivere delle donne, quanto per la ricaduta politica che certi capitoli danno a un consenso elettorale che si credeva inattaccabile. Destra e sinistra sono in difficoltà almeno quanto le gerarchie ecclesiastiche. Il saggio è censurato e nel 1956, con editto Vaticano, viene messo all’indice dei libri proibiti. Ma cosa contenevano le 850 pagine scritte dalla compagna di Sartre? E perché nel secondo dopoguerra, in un paese apparentemente libero come la Francia, si grida allo scandalo? La risposta è semplice: il capitolo sulla maternità. Da una donna filosofa, nubile e senza figli, per giunta quarantenne, ci si aspettava qualche cedimento in più. E invece la de Beauvoir non da tregua al lettore, scandagliando rapporti di potere, rivalità e dipendenze che le madri stabiliscono col proprio figlio ancora prima di partorire. Da speleologa dell’osservazione qual’era, non le era sfuggito l’essenziale. Ossia che non si può essere madri senza la possibilità, legale, di non esserlo. Il capitolo sulla maternità è quasi tutto incentrato sull’aborto. Non credo sia un caso. E non so quanti altri studi l’abbiano analizzato. So soltanto che, una ventina di anni fa, quando iniziai a leggerlo, rimasi colpita proprio da questo approccio. Ma si sa, avere punti di vista non convenzionali è un rischio. Nella doppia morale dell’epoca, che in assenza di legge vietava in pubblico temi che nel privato ciascuno risolveva con disinvoltura, con sbrigative interruzioni di gravidanza, non parve vero scagliarsi contro quello che non era altro che un vero e proprio manifesto dell’autonomia femminile. Molto prima della Francia di Petain, il governo di Parigi si era impegnato in politiche a favore della natalità, assegni familiari e istituti a sostegno della famiglia erano al centro dei programmi elettorali sia della destra che della sinistra. In questo contesto l’analisi della de Beauvoir apparve come un affronto di lesa maestà, anche per una buona fetta di intellettuali marxisti. La maternità è un fatto politico, proprio perché riguarda la prima cellula della società. Perderne il controllo consentendo alle donne facoltà di scelta in ogni campo della riproduzione, dalla nascita alla crescita fino all’educazione, significava e significa, perdere potere e conseguentemente consenso politico. Il secondo sesso rompe un paradigma. Svela l’insvelabile mettendo a nudo la realtà di una condizione femminile che poteva e può diventare emancipata. “Il mondo si regge sulle madri”. Ma la politica è affare per maschi. Gli stessi che utilizzano la Marianna come simbolo nazionale sono stati i primi a disconoscerla, quando rischiava di tracimare in cultura popolare, comune a tutte. Finché si tratta di roba da élites o pensieri di nicchia, i vertici lasciano correre. Diverso è quando la posta in gioco può essere suddivisa e il potere annacquato. E le madri lo sanno. Che cos’è la maternità se non un pensiero ambiguo: orientato al futuro ma con radici nel passato. Un ibrido. Clonazione di un sé femminil-familiare che si vuole rendere immortale. Attraverso i figli le madri tramandano tradizioni e culture e nello stesso tempo, però, creano il futuro. Evidentemente la de Beauvoir si rendeva conto del paradosso. Anche nelle piccinerie della ricerca di somiglianze, quella smania comune a tutte di ravvisare espressioni che diano il senso dell’appartenenza al clan: il naso come la bisnonna, il carattere come la madre, la bocca come la zia. Quante madri sono in grado realmente di accettare la differenza da sé, l’autonomia di pensiero o le scelte di vita opposte alle proprie che spesso si incarnano nei propri figli. Quante riescono a guardare senza giudicare. Ma con la propria unica scala di valori non si va troppo lontano. La figlia estetista da madre intellettuale, il figlio gay da genitori cattolici, l’escort da una famiglia borghese. Come la mettiamo? E in che modo siamo madri quando il risultato del parto non va proprio nella direzione che pensavamo. Bisogna avere il coraggio di sperimentare. Ma il rischio non è donna e non è madre. È il coraggio dei maschi. La madre è conservativa per definizione. Tramanda, perché il tempo di inventare non c’è. Perché il lavoro chiama, la casa deve essere organizzata, i bambini accuditi, il maschio ascoltato, la famiglia gestita. È ovvio che in una tale corsa ad ostacoli non c’è modo di costruire azioni collettive su una differenza di genere capace di ri-ordinare il mondo. Le madri non rappresentano una lobby. Solo in sporadici casi le donne si uniscono diventando gruppo di pressione capace di lottare per ottenere diritti. Il pensiero femminista, che tanto deve alla Castora del Padre dell’esistenzialismo, continua ad essere deficitario. Nonostante l’abbattimento di un paradigma, non riesce a tracimare nella politica che crea cultura. Non riesce ad essere attraente. Non riesce ad essere semplice. Non ci riesce, anche perché non ci sono donne che accolgano quel pensiero. Fattivamente. Comunitariamente. Ciascuna lotta per se stessa o per il proprio clan di appartenenza. Per il proprio gruppo politico. O per le amiche del tè, o per quelle dell’infanzia. Le altre restano fuori. Una dimensione più ampia non c’è. E il pensiero resta lì, come le migliaia elaborazioni femminili che appassionano il femminismo e che vengono considerate cardini di una cultura Altra, come dice la de Beauvoir. Mi domando, a proposito di madri e di declinazioni del ruolo femminile, cosa posso rispondere a mia figlia undicenne che mi chiede perché Cristoforo Colombo non era donna e perché mai non si hanno notizie di Piratesse madri, e per quale motivo quando andiamo a fare la spesa nelle botteghe di provincia i maschi parlano di economia e politica mentre le femmine tacciono. Mi domando perché le mamme, anche colte, portando i figlioletti al parco parlano soltanto dei figli e mai di finanza o del condominio. Perché il calcio è passatempo quasi esclusivo degli uomini che riescono in una dimensione, altra da sé, il gioco appunto, a ritrovarsi e a discutere, dimenticando sé stessi e liberando energie, in un caleidoscopio di emozioni e di tattiche e di strategie che gettano il pensiero all’esterno. Come richiede la vita, che va cavalcata e lanciata fuori da sé come avviene nel parto. Questo dovrebbe essere il compito delle madri: trasmettere possibilità e insegnare autonomia. E invece avviene il contrario e finiamo per lasciare in eredità nevrosi, quando ci va bene, pianti e lamenti di quel che volevamo e non è, nella maggior parte dei casi. Il gioco non ci appartiene. L’autoironia è per pochissime. La leggerezza è mal guardata. 

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