Prigioniera di Teheran - Si è diplomata a Teheran, dov’è nata, ma vive in Canada, nei pressi di Toronto dove ha conseguito un diploma in scrittura creativa presso la Scuola degli Studi Superiori dell’Università di Toronto e dove lavora come profess
Colla Elisabetta Martedi, 21/04/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2009
Si è diplomata a Teheran, dov’è nata, ma vive in Canada, nei pressi di Toronto dove ha conseguito un diploma in scrittura creativa pres so la Scuola degli Studi Superiori dell’Università di Toronto e dove lavora come professore associato al Massey College. Marina Nemat ha fatto conoscere al mondo il suo nome pubblicando il libro “Prigioniera di Teheran”, che racconta la vera storia della sua adolescenza in Iran e i due anni trascorsi nella prigione di Evin a Teheran, fra torture e violenze. Ha quasi terminato un altro libro.
È a causa del suo passato che è diventata una scrittrice ed un’attivista?
Quando ho scritto le mie memorie sulla mia adolescenza in Iran ed il periodo passato in prigione non avevo in programma di diventare un’attivista, ma presto mi sono resa conto che scrivere soltanto non era sufficiente. Non potevo cambiare quello che era successo a me ed ai miei amici, ma potevo combattere per fare in modo che non accadesse ad altri, e per me il modo migliore era continuare a scrivere ed intervenire a conferenze e ad altri eventi. Ho anche parlato nelle scuole e nelle università, per condividere con le giovani generazioni l’esperienza umana di vivere durante la Rivoluzione islamica e di sperimentare le sue prigioni.
Come e perché ha deciso di impegnarsi nella questione femminile in Iran (e non solo): studi, esperienze personali, aspirazioni, desiderio di giustizia?
Non è stata una mia decisione: è l’impegno che ha scelto me. Avevo 13 anni quando ci fu in Iran la rivoluzione islamica, che sconvolse anche la mia vita. Provenivo da una famiglia cristiano-ortodossa, poiché entrambe le mie nonne erano russe e nel 1917 dopo la rivoluzione comunista ripararono in Iran. Mio padre era istruttore in una scuola di ballo a Teheran e mia madre era una parrucchiera. Sono nata e cresciuta nel 1965, all’epoca dello Scià ed ho avuto un’infanzia piuttosto idilliaca. Avevamo un cottage sul Mar Caspio, dove ho passato le mie estati indossando bikini sulla spiaggia e ballando la musica dei Bee Gees. Anche se lo Scià era un dittatore, io non lo sapevo. Come cristiana non sono mai stata perseguitata, la mia famiglia non faceva politica e, per un periodo, abbiamo potuto godere di una discreta libertà personale.
Poi è venuta la Rivoluzione…
Sebbene l’Ayatollah Khomeini avesse promesso la democrazia al popolo iraniano, non è ciò che abbiamo avuto, anzi abbiamo perso anche quello che avevamo. Dopo la Rivoluzione, divenni sempre più infelice man mano che indossare lo Hijab [= velo islamico] venne reso obbligatorio, i giornali critici verso il governo islamico furono resi illegali, la letteratura occidentale fu bandita e la danza e la musica furono dichiarate “sataniche”. Ero un’adolescente, all’epoca, e tutte le cose che amavo mi venivano tolte. Fu insopportabile quando tutti gli insegnanti della nostra scuola furono sostituiti da giovani fanatici, membri della famigerata Guardia rivoluzionaria, che non avevano i titoli per insegnare ma avevano l’ordine di fare il lavaggio del cervello ai giovani.
Quando e perché è stata arrestata? Cosa le è successo in prigione?
Protestavo e manifestavo finché nel 1982 fui arrestata insieme a migliaia di altri adolescenti. Ho passato più di due anni nella famigerata prigione di Evin, dove mi hanno torturata e dove sono stata a un passo dall’esecuzione. In prigione, uno dei miei aguzzini mi costrinse a sposarlo all’età di 17 anni. Ciò non significava che sarei stata rilasciata, ma che avrei passato le notti in una cella isolata con lui, subendo ripetuti stupri nell’ambito di un supposto “matrimonio”. Egli disse chiaramente che, in qualità di prigioniera politica, non avevo alcun tipo di diritto e che poteva fare ciò che desiderava di me. Come si può immaginare, questa esperienza mi ha segnato pesantemente. Dopo il mio rilascio, la mia famiglia rifiutò di farmi domande su ciò che mi era accaduto durante la prigionia, e non ricevetti alcun aiuto per poter gestire il trauma che avevo affrontato; di conseguenza ho sofferto tacitamente della malattia nota come disturbo post-traumatico da stress. Finalmente, quando riuscii ad affrontare il mio passato e a superare il disagio, mi resi conto che dovevo testimoniare per raccontare la storia di migliaia di adolescenti che il governo dell’Iran aveva torturato e massacrato.E questo è ciò che faccio oggi.
Quali sono i suoi obiettivi principali nella vita personale e pubblica?
Il mio scopo è creare consapevolezza e incoraggiare altre vittime ad uscire allo scoperto. Il silenzio è nostro nemico. Se riescono a mettere a tacere le vittime, hanno vinto. Dobbiamo mantenere la discussione sui diritti delle donne e degli uomini al centro dell’attenzione.
Come possono in modo concreto le donne in Italia ed in altre parti del mondo aiutare la causa di altre donne che vivono situazioni come quelle che ha vissuto lei?
Culturalmente, il Medio Oriente è molto diverso dall’Occidente. Affinché le donne occidentali possano aiutare la lotta delle donne orientali, dovrebbero essere informate bene. Leggere un libro sull’Iran o sull’Afghanistan non fa di una persona un esperto di Medio Oriente. Per acquisire conoscenza, dobbiamoleggere molti libriesoprattutto interagire direttamente con persone di altre culture. Il dialogo è la chiave per la comprensione. Dobbiamo tenere vive le questioni parlandone in pubblico. Le donne mediorientali hanno bisogno di sostegno ma sono perfettamente in grado di risolvere i propri problemi, anche se ci vuole tempo. Come abbiamo visto in Iraq, un intervento precipitoso e non informato può condurre al disastro. La violenza non può essere eliminata con la violenza. La guerra non porta mai a una pace duratura.
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