La Donna del mese - Lo scorso 11 giugno è morta Maria Cervi, figlia di Antenore, la più grande dei bambini rimasti orfani dei sette fratelli martiri della Resistenza.
Redazione Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2007
Un ricordo di Genoeffa Cocconi.
Lo scorso 11 giugno è morta Maria Cervi, figlia di Antenore, la più grande dei bambini rimasti orfani dei sette fratelli martiri della Resistenza. 'noidonne' affida alla sua parola il ricordo e la storia, che fu della sua famiglia ma anche dell'Italia e delle donne.
Il profilo della figura di mia nonna Genoeffa che nel tempo si è delineato nel mio pensiero è il frutto di ricordi personali, del mio vissuto, troppo breve, con lei; è morta che avevo solo dieci anni, ma è un ricordo costellato di tanti momenti intensi e significativi che mi hanno segnato al punto da condurmi negli anni alla ricerca di una maggiore conoscenza di lei, una più profonda comprensione della sua personalità. Ho trovato importanti risposte nei racconti di mio nonno Alcide, di mia madre Margherita, delle altre tre nuore: le mie zie Iolanda, Verina e Irnes e delle sue due figlie, le mie zie Diomira e Rina, di nostro cugino Massimo. Tutti hanno rappresentato, dopo la fucilazione dei nostri padri, la prima fonte di una più approfondita conoscenza di loro: chi erano, cosa volevano e che cosa avevano fatto. Ne avevo bisogno, per stabilire il contatto con le mie radici e colmare, almeno in parte, il vuoto terribile che avevo dentro.
Proseguendo nel tempo, le mie fonti si sono moltiplicate e ho trovato nuove risposte nelle conversazioni con gli altri parenti, gli amici di famiglia, i compagni di lotta e – per mia nonna in particolare – con la zia Maria, sua adorata sorella, con le cognate che erano sopravvissute, con le nipoti dirette ed acquisite, tutte più grandi di me e che io ritenevo fortunate perché avevano vissuto con lei un rapporto da adulte. Col procedere di questa operazione di ricerca personale, con la maturità ed ora con l’esperienza dell’anzianità, si è radicata in me la consapevolezza che mantenere la sua figura all’ombra di quella del marito come avvenuto fino ad ora, e cioè per sessant’anni, sia stato, sì, l’effetto delle circostanze più favorevoli che la vita ha riservato a lui con la riconquistata salute e la prolungata sopravvivenza, ma anche frutto del maschilismo da cui anche gli ambienti democratici non sono stati immuni.
Quante volte durante le cerimonie e le commemorazioni ho sentito l’oratore di turno pronunciare, pur nel contesto di discorsi importanti, commoventi e ben strutturati, la frase: “Questi sette fratelli, figli di Alcide”, mentre ogni volta si rafforzava in me la convinzione che non fosse giusto; quei sette fratelli sono figli di Alcide e di Genoeffa, non soltanto perché lei li ha partoriti, allattati e nutriti, ma perché “insieme” li hanno cresciuti, educati all’amore per al famiglia e per il lavoro, ma anche per la lettura, per lo studio, per il gusto della comunicazione e del reciproco ascolto.
Sono stati Alcide e Genoeffa “insieme” a trasmettere ai figli i valori di pace, di libertà e di giustizia che sono poi diventati base delle loro scelte più importanti. Sono convinta che se loro (i sette fratelli) hanno saputo dare tanto nel lavoro, nella famiglia e nel sociale non è perché fossero così eccezionali, erano uomini come tanti, con forze e debolezze, con pregi e difetti; le marce in più che hanno saputo innestare nel motore della vita erano dovute alla capacità di ognuno di ascoltare l’altro e di fare del parere di tutti una grande forza; ma ciò ha potuto essere perché hanno avuto un padre come Alcide e una madre come Genoeffa.
L’immagine di lei che il tempo ci ha trasmesso, di una moglie e madre vissuta all’ombra del marito e dei figli, non le rende giustizia. Ho fiducia che, con le celebrazioni dei “sessantesimi”, la riflessione su questo tema si apra al giusto indirizzo. Anche sostenere, come qualche volta ho sentito, che Genoeffa, come le altre donne di questa famiglia e di tante altre famiglie protagoniste nella Resistenza, non erano a conoscenza dell’attività dei loro uomini, o quantomeno che ne furono spettatrici passive, non rende giustizia; non a Genoeffa, non a Jolanda, Margherita, Verina ed Irnes, non a tutte le donne delle famiglie contadine della nostra e di tante province italiane, che pur nell’ombra e nel silenzio hanno partecipato attivamente alla Resistenza rendendone possibile lo svolgimento e l’esito vittorioso.
In circa quattro mesi, dal 25 luglio al 25 novembre 1943, la nostra casa ha ospitato oltre ottanta uomini: renitenti alla leva, disertori e poi, dopo l’8 settembre, prigionieri scappati dalle mani dei tedeschi, fino alla piccola squadra che è partita verso la metà di ottobre per raggiungere l’Appennino e cominciare la resistenza armata in montagna. Tutto questo ha comportato un grande lavoro: per la preparazione dei pasti, a cominciare dal pane che si confezionava e si cuoceva in casa, per la trasformazione di abiti militari in civili, per le cure ai malati e le medicazioni ai feriti, per l’attenzione e la vigilanza indispensabili a garantire riservatezza e clandestinità al movimento. Un grande lavoro per sostituire gli uomini nella quotidianità della stalla e dei campi, quando questi erano assenti perché latitanti o impegnati in attività della Resistenza.
Le donne di casa Cervi, come quelle di tante famiglie italiane, sono state non solo supporto consapevole ma artefici dirette di questa rete di sostegno invisibile ma determinante. E anche Genoeffa lo è stata, anche lei è stata una donna della Resistenza.
Dopo la fucilazione dei sette fratelli la famiglia ha continuato a collaborare con i partigiani, ospitando uomini, nascondendo armi o fornendo mezzi, e lo fecero le donne, visto che erano rimaste solo loro; certo, con la guida e l’aiuto di nostro cugino Massimo, partigiano pure lui; e Genoeffa non poteva che esserne almeno consapevole e consenziente insieme, ancora una volta, al marito Alcide, se non partecipi attivi dato l’immenso dolore che li opprimeva.
Anche di fronte alla notizia terribile della fucilazione dei figli, lacerata da un dolore indescrivibile che nessuna madre oltre a lei ha provato, ha dovuto stringere i denti e andare avanti. Ricordo gli strazianti monologhi di fronte all’immagine di santa Teresa, di cui era devota, e che da sempre conservava sul comò; la rivedo seduta di fronte alla foto dei suoi figli, chiamarli uno ad uno per nome elencandoli sulle dita delle mani, o in lunghe, interminabili ore di immobilità; seduta ai piedi del letto con le mani in grembo, persa in chissà quali ricordi e pensieri. Ma ricordo anche i lunghi e complicati dialoghi con mio nonno sull’eventuale destinazione che avrebbero raggiunto i loro figli dopo che, all’alba del 28 dicembre, erano stati prelevati dal carcere di Reggio Emilia, dove anche lui si trovava. Lei sapeva che erano già stati uccisi, e lui no; e per molti giorni è riuscita, insieme a tutta la famiglia ma con lei in prima fila, a risparmiargli la verità, nella speranza che il tempo lo aiutasse a riprendersi fisicamente e a sopportare una così dura realtà.
La pubblicistica ci ha consegnato una figura di padre forte che ha saputo reagire positivamente e guardare al nuovo raccolto, e di una madre dolce e remissiva che, oppressa dal dolore, non avrebbe retto alla perdita dei sette figli: io penso che non sia andata proprio così.
Accanto ai momenti di disperazione più che comprensibile, ricordo con quale trepidazione ha seguito la nascita del piccolo Gelindo, avvenuta il 6 febbraio 1944, e che si è chiamato così perché il padre Gelindo era stato fucilato da oltre un mese; ricordo tanti gesti di attenzione verso qualcuno di noi o verso tutti contemporaneamente, preoccupata per il nostro futuro, per la nostra condizione di orfani che avrebbero voluto la meno pesante e la più dignitosa possibile: non vorrei mai che qualcuno possa dire di loro: “poverini, non hanno più il papà…”
Da quella frase mi è venuta tanta forza per allora e per tutta la vita, ancora oggi ricorro a quelle parole e al loro significato più profondo e non solo per testimoniare ai giovani ma anche per attingervi forza e guida nelle difficoltà che la vita mi presenta.
Il suo cedimento totale avvenne alla metà di ottobre del 1944, dopo dieci mesi di dura resistenza personale e di innumerevoli sforzi per farcela. “Capisco che posso essere ancora utile”, l’avevo sentita dire, e pur avendo soltanto dieci anni avevo provato un gran sollievo. Ha ceduto di fronte al nuovo incendio di cui è stata oggetto la nostra casa, perché vi ha letto con molta lucidità un ulteriore atto di persecuzione e ha temuto per l’incolumità di noi bambini. Quello stesso giorno, dopo aver dato l’allarme alle nostre madri e ai parenti intenti alla vendemmia, si è occupata del piccolo Gelindo stringendolo tra le braccia fino a quando l’incendio è stato domato, poi lo ha consegnato a una delle nostre madri dicendo: “Ora pensateci voi, anche per la cena, io vado a letto, non ne posso più…”. Alcuni giorni di cure a casa e un breve ricovero all’ospedale di Montecchio non sono valsi a nulla, ci ha lasciato per sempre il 14 novembre, ad un mese esatto dal giorno dell’incendio.
La bara contenente la sua salma è stata portata fuori casa dalle sue quattro nuore, che anche in quella circostanza hanno voluto colmare il vuoto dell’assenza dei “loro” sette uomini, come già avevano iniziato a fare all’indomani del loro arresto, e come hanno cercato di fare per tutta la vita nella famiglia e nella società.
Il testo è di Maria Cervi, tratto da Istituto 'Alcide Cervi', Società Italiana delle Storiche, "Guerra e resistenza politica. Storie di donne" a cura di Dianella Gagliani. Ed Aliberti
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