Mercoledi, 17/08/2011 - L’inconfondibile tocco di Margarethe Von Trotta non delude: dalle sorelle Ensslin, protagoniste del cult “Anni di Piombo” (1981), fino alle monache benedettine del film “Vision”, proiettato in Sala Frau a Spoleto54, nell’ambito del Senza Frontiere/Without Borders International Film Festival, lo stile con cui la grande regista tedesca scrive e gira film o disegna personaggi, specialmente femminili, rimane costante: anticonvenzionale, raffinato ma popolare, intellettuale ed emozionante, denso d’idealità e passione. La pellicola “Vision”, già transitata al Festival di Roma nel 2009 e dedicata ad Hildegard von Bingen, una monaca benedettina mistica e rivoluzionaria (e non sembri una contraddizione, anche se lei non si sarebbe mai definita così) vissuta nel XII secolo, non si discosta da questi parametri, se non per un ampio salto temporale. “Molti mi hanno chiesto perché ho voluto fare un film su una figura del Medio Evo - racconta la Von Trotta - fin dai tempi di ‘Anni di Piombo’ ho avuto in mente di fare film su modelli/esempi di donne cui fare riferimento nella storia: sappiamo, infatti, che la Storia con la S maiuscola la fanno molto spesso solo gli uomini e le femministe cercavano invece di trovare modelli di donne con intelligenza e capacità straordinarie”. Le eroine della Von Trotta, infatti, lottano per raggiungere i loro obiettivi, personali e collettivi, spesso in dialettica accesa con uomini di potere, o con personalità più acquiescenti, con le quali dialogano e si scontrano, fino ad ottenere, talvolta con alti costi, i risultati prefissati. Amano rischiare, proprio come la regista con le sue opere: “Lei, Hildegard, - continua Margarethe Von Trotta - era così curiosa, intelligente e multi-talentuosa e, per il suo tempo e la sua condizione, aveva il coraggio di fare cose che molte donne non avrebbero mai fatto. Conosceva i rimedi delle erbe, scriveva musica (ha lasciato 90 pezzi musicali), parlava di un Dio che amava la bellezza, aveva visioni mistiche ma, soprattutto, aveva sete di cultura ed anticipava i suoi tempi. Pur essendo considerata una santa, mi piaceva l’idea che, nel momento dell’amore filiale verso una giovane suora, Hildegard reagisse come una donna normale. Nel film sottolineo l’aspetto materno, il parallelo tra scienziata e santa popolare, lei aveva sì una grande fede ma anche l’intelligenza di usare qualche volta le sue ‘visioni’ per ottenere quello che voleva.” Il film racconta, con una fotografia quasi pittorica e soluzioni tecnico-registiche estremamente eleganti ma di forte impatto, le diverse tappe della vita di Hildegard von Bingen: da quando, bambina, viene portata al convento di Disibodenberge ed affidata all’aristocratica Jutta di Sponheim, a quando, diventata madre Superiora, decide di far trasferire altrove le consorelle, fondando il monastero di Rupertsberg, fin quando la santa – dopo numerose vicende che costituiscono la trama del film ben descrivendo anche l’epoca – si ammala di una grave malattia a 60 anni (anche se morirà ad 81 anni). Una magnifica Barbara Sukowa (già nota protagonista di “Rosa L.”, della stessa regista e di “Berlin Alexanderlatz” di R.W. Fassbinder) interpreta l’anticonformista monaca, dando vita ad una eccelsa gamma di sfumature, capaci di evidenziare al tempo stesso il rigore e la seduzione, il decisionismo politico e la febbricitante visionarietà mistica di un personaggio che rischiò l’eresia per aver richiesto il rispetto di sè e delle sue visioni, per aver onorato la sua intelligenza e volontà e per aver provato sentimenti di profondissima umanità e compassione, senza temere di tener testa (con lettere, parole e scritti) a uomini illustri del suo tempo, quali Federico Barbarossa e Bernardo di Chiaravalle.
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