Mafia - Scritto da Emma Dante e diretto dalla stessa autrice, "Cani di bancata" si sviluppa nel delirio delineando un "mosaico grottesco e feroce sulla mafia"
Mirella Caveggia Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Aprile 2007
"Madre, ti affido l’Italia". L’invocazione, impressa come un sigillo a lettere nere da un mamma santissima femmina sui sederi nudi di un drappello di adepti di Cosa Nostra, chiude il mosaico grottesco e feroce sulla mafia composto da Emma Dante nel suo ultimo lavoro, Cani di bancata. Così sono chiamati in Sicilia gli animali che si aggirano nei mercati all’ora di chiusura per afferrare qualche boccone di scarto. L’attrice e regista siciliana, autrice di lavori come mPalermu, Carnezzeria e Michelle di Sant’Oliva, in questo suo lavoro rappresentato alle Fonderie Limone di Moncalieri prima di toccare la Sicilia ha offerto per la prima volta la propria visione - senza benevolenza e senza spiegazioni, con coraggio e sincerità – di una ripugnante e odiosa associazione a delinquere. Lo spettacolo sfugge alle descrizioni, tanto sottili sono gli accenni, penetranti i simboli, rivelatori i messaggi e rapidi i mille segnali che libera nel suo intreccio confuso. Specialmente all’inizio, quando si assiste senza decifrarle a situazioni stranianti, a grossolane ritualità. Ma nell’apparente confusione, nell’accavallarsi bizzarramente comico degli stereotipi gestuali e verbali si scorgono l’efferatezza e l’ignoranza di un mondo inafferrabile dove la mancanza di morale è regola.
Bisogna vederlo dal vivo questo allestimento che si sviluppa nel delirio, perché la descrizione lo fa impallidire. Emma Dante, che lo ha scritto e lo ha diretto con fermezza, ha personificato cosa nostra in una donna circondata di un volgare apparato di candele e immaginette, di metri e metri di rasi e di pizzi bianchi che si tramutano in veli neri, da impalcature in legno che si scompongono e si adattano alla circostanza scenica. Lo spettatore assiste ad un consesso che ha inglobato un nuovo iniziato. Nella seduta fra fiaschi di vino e laute portate sfilano rapide le evocazioni delle nefandezze che macchiano la cosca criminale. È una macabra parata enfatizzata al massimo, appesantita da una parlata in siciliano stretto, ma sempre solo evocativa, che ha toni e registri aderenti all’ambiente che la deformazione connota di impenetrabile ambiguità. Affiorano spunti del film di Kubrik Eyes wide shut, ma di tutt’altra pasta è l’immersione nelle pieghe di questa descrizione che sconcerta e apertamente lancia citazioni, accuse e nomi senza tante reticenze.
Sono tutti bravi i dieci giovanissimi attori, ma quant’è abile lei, Manuela Lo Sicco. Bavosa e tarantolata, impone strepitando la sua volontà a quanti si ingozzano al suo tavolo. Con quel ghigno dipinto in faccia e la più forsennata sguaiataggine incarna la spietatezza e la seduzione, la sicumera e la vigliaccheria. Nel capo in gonnella e nei suoi seguaci proni in sua presenza e anche un po’ cretini (“se le imprese diventano nostre, a chi si chiede il pizzo?”), c’è una comicità tinta di macabro che non impedisce di fremere di indignazione. Infatti sono autentici i meccanismi del dominio fondato sulla paura che soffoca le reazioni, e le vendette si abbattono davvero su chi non si adegua, anche sugli deboli e sugli incerti, come il povero “signor ferroviere” Liborio Paglino, che accartocciato dalla paura finisce torturato e impiccato.
Certo è che la vergogna, la spietatezza e la devozione distorta (“con il mio consenso, Dio vi benedica …") spiattellate su un palcoscenico - anche se in chiave comica e paradossale - non intonano un inno d’amore alla Sicilia; ma è un segno incoraggiante che i suoi figli coraggiosi e intelligenti come Emma Dante reagiscano ad un’Italia “spartita, spaccata, insanguinata” dal fenomeno mafioso.
(26 aprile 2007)
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