Un libro, che fa seguito a un film, sul rapporto tra una figlia poco più che cinquantenne e una madre novantenne. E su una tanto 'innaturale' quanto 'perfetta' inversione di ruoli
Un film e un libro che si completano, come succede nei rapporti famigliari, in particolare quelli tra madre e figlia, che certe volte hanno bisogno di stampelle, per reggere prima l'urto delle incomprensioni e dell'ingratitudine, poi della paura del distacco e della perdita.
Il film è Tra cinque minuti in scena (2013), di Laura Chiossone, protagonista Gianna Coletti, che ne è involontaria ispiratrice. Il libro è il più recente Mamma a carico (2015, Einaudi), della Coletti stessa, che da interprete diventa autrice. Dal palcoscenico all'inchiostro, la storia - di straordinaria attualità - è quella di Gianna e della di lei mamma, Anna. E di quel periodo ultimo dell'esistenza che deve dare un senso a chi va e a chi resta. Un tempo 'inevitabile' col quale tutti noi siamo chiamati a fare i conti, perché nella vita due uniche certezze ci sono, la nascita e la morte.
Nel mezzo sta la malattia, l'invecchiamento, la vulnerabilità di un corpo che spesso ci abbandona prima della mente. E ci imprigiona, togliendo a noi la libertà di agire e imponendo a chi abbiamo attorno le catene dell'impotenza. Film e libro possono essere sondati autonomamente, senza rispettare l'ordine cronologico, perché sono opere a se stanti. La narrazione si snoda in entrambi i casi attraverso le vicende autobiografiche di Gianna, attrice di teatro e tanto altro costretta a venire a patti con la senilità di una madre novantenne non più autosufficiente, cieca, che si ostina a portare gli occhiali 3D, ma ancora golosa e in qualche modo vanitosa. C'è una dedizione costruita giorno per giorno, attraverso la risoluzione di continue emergenze - dall'assenza di badante alle questioni economiche - verso una 'signora' che torna bambina, la cui memoria è legata a filastrocche e canzoni. E c'è Gianna, che madre naturale non lo è ma lo diventa della sua, in una perfetta inversione di ruoli accomunati dal concetto di cura e riconoscenza. E se nel testo prevalgono una certa ironia e levità, il film è certamente più amaro, perché grazie alle immagini non permette vie di fuga, auto inganni. Della vecchiaia dà una rappresentazione tutt'altro che edulcorata, fatta di pannoloni, creme, pappe liquide. Si sentono le parole biascicate della mamma di Gianna, si vede la sua carne molle, le sue ciabatte ortopediche. Eppure, siamo di fronte alla bellezza, laddove a bellezza diamo il senso di verità. Sono due opere che ci prendono per il bavero, ci ricordano che non siamo onnipotenti, che non possiamo rimandare l'anzianità, chiudere gli occhi, tapparci le orecchie, fingere. Evocano una tenerezza che non contrasta con la forza di sopravvivere durante, dopo e senza chi amiamo. Evocano quel perdono cui tutti noi dobbiamo arrivare, conquistandolo tra ferite e rancori e stanchezza. Il rapporto tra madre e figlia è il più difficile da codificare. Lì si genera la nostra sicurezza e insicurezza. Il nostro amor proprio. La nostra auto stima. Lì prendono forma sogni e fallimenti. Lì si costruisce la nostra personalità di 'adulti'. Film e libro sono coraggiosi, perché mettere a nudo la propria intimità, nel caso di Coletti, e raccontare quella altrui, nel caso di Chiossone, richiede una buona dose di fiducia. Anche e soprattutto nell'altrui comprensione. I premi ricevuti dalla pellicola, sull'onda del cui successo è arrivato il libro, confermano che Chiossone e Coletti hanno intercettato un bisogno, quello di andare oltre il pudore 'sociale' che ci vorrebbe sempre belli, felici e in buona salute. Quello che legittima l'egoismo e l'eccessiva concentrazione sul 'sè'. A rimanere, allo spettatore e/o lettore, è una forma di malinconia buona, utile, che aiuta a fare introspezione. E ci dice che in fondo abbiamo risorse inaspettate, come quella di sapere diventare genitori dei nostri genitori senza ritrosie e rimpianti. E questa è una grande opportunità, che la 'politica', alla voce welfare, dovrebbe indagare. Giusto per non parlare della vecchiaia sempre e solo come un costo e mettendola per una volta alla voce ricchezza. E umanità.
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