Società/ Mafie - Rosa e le altre prendono iniziative contro l’illegalità organizzata che, ormai si sa, non è solo al sud ma anche nei Palazzi del centro e del nord del Paese
Stefania Cantatore Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2005
Rosa D., cinquantenne o poco meno, donna graziosa, non di rado accesa di giovanili rossori, minuziosamente curata nella persona: quel che si dice “un donnino” niente male. All’epoca del nostro primo incontro Rosa era così. Era venuta a Napoli da sposa e lì sono nate le sue figlie, ma Rosa D. è calabrese e lo è rimasta. I racconti sulla sua terra erano affettuosi, durante il periodo più assiduo della nostra amicizia, e li ho ascoltati mentre preparava la sua sontuosa zuppa di pesci “poveri” oppure mentre mi spalmava un crostino con il suo caviale di alici e peperoncino. Mi ha fatto conoscere così una faccia della Calabria, dove durezza e povertà sono nei suoi sapori migliori.
Una faccia della Calabria è, però, anche lei Rosa D.
A proposito dell’inganno delle apparenze, cita un vecchio adagio “Rosa mindosa, fimmina de casa , veni lu munachieri, nà pizzica e nà vasa” ( l’apparentemente casta visita del parroco, che è invece un incontro amoroso). E da un modo di dire si apre l’universo di una Calabria dove, una volta tanto, se ti prendi una libertà, non sei ‘Malafimmina’, ma una Rosa mindosa .
A quell’epoca la casa di Rosa traboccava di donne: le sue ragazze e le figlie di sua sorella venute a frequentare l’Università; in casa di D. si parlava sempre fino a notte inoltrata.
L’ho conosciuta già vedova, non so perciò se sia stata sempre così libera, ma so che ora, Rosa, fa le cose solo perché le vuole. Lo stesso amore che lei ha per la sua terra, non ha l’accento di quel languore che per retorica si vuole di noi meridionali.
Mi ha raccontato del suo tempo di ragazza a Serra, delle giornate al mare, ma anche degli incendi nel castagneto, di uomini che facevano paura a tutti, della terra e delle cose che non cambiano mai. E poi, poi è venuta a Napoli e, da come la conosco, sapeva di trovare tante cose differenti, ma tra quelle una, la criminalità organizzata sarebbe stata differente solo nel nome.
Le cose che non cambiano mai sono tante in Italia, ma le donne e gli uomini sì, e tanto sono cambiati, le une e gli altri, molto per merito delle prime. Tra le cose immutabili: la mafia, la camorra, la n’drangheta, la sacra corona unita; immutabili ma versatili come un liquido immondo capace di cambiare percorso senza smettere di avvelenare tutto ciò che tocca.
Le donne come Rosa, in Calabria, in Campania, in Sicilia come in Puglia, vivono e cambiano, si muovono tramandando storie “nonostante” la mafia, comunque si voglia chiamarla.
Le donne che cambiano, che cercano di vivere secondo le proprie scelte non piacciono alla Camorra né qui né altrove. Chi vive nel sud, è impegnata nella corsa ad ostacoli per evitare pericoli troppo diretti, e sa che non ci si abitua mai. E sono donne e uomini ad essere vittime, anche quando non colpiti direttamente; ma le donne subiscono, per rincaro, l’amplificazione degli stereotipi che le vogliono compiacenti, troppo deboli per opporsi, se non addirittura da riportare nei ranghi.
Sono tante le donne che si espongono e si sono esposte: si chiamano Silvana Fucito, Rita Borsellino, Teresa Cordopatri, Maria Falcone, Matilde Sorrentino, Rita Atria, Felicia Impastato, e nominandole ci si rende conto di quanto lungo dovrebbe essere l’elenco. Qualcuna di loro non è più con noi, cancellata dalla criminalità alla quale si opponeva o dal dolore che questa le ha procurato. Sono e sono state in prima linea, mosse dalle loro perdite. Poi ci sono le cose che si perdono ogni giorno, le prepotenze che si incontrano ogni giorno, per le quali,qualsiasi cosa tu faccia, qualunque sia il tuo lavoro sei costretta a scegliere se essere con o contro le mafie.
E la maggioranza sceglie bene, costretta a tenere la guardia sempre alta, sa di non poter contare sullo Stato, da molto tempo. Assai prima che il Procuratore Grasso facesse le sue “rivelazioni”.
La misura di ciò che si può chiedere alle cittadine e ai cittadini sottoposti all’illegalità diffusa e collusa è già colma da tempo, con l‘aggiunta dell’odiosità di un clima che imputa ai cittadini stessi la colpa della recrudescenza dei fenomeni criminosi.
All’indomani delle dichiarazioni di Pisanu, che furono un preciso atto d’accusa verso tutta la città di Napoli, con una lettera diretta al ministro ed aperta alla stampa, l’Udi di Napoli, spiegò e argomentò ampiamente come fosse rimasta inevasa ed inascoltata la sua protesta per l’abbandono del territorio che ha favorito l’occupazione camorristica di interi quartieri.
C’erano state le prese di posizione preoccupate di Elena Coccia, di personaggi della cultura e dello spettacolo, ed a seguire, purtroppo le minimizzazioni del sindaco e dei poteri locali. Ormai sembra opinione diffusa che la politica, senza l’iniziativa e lo sguardo delle donne sia,destinata a languire in un gioco di false soluzioni. Ed è così che forse il coraggio di tante donne e di tanti uomini (eroi, perché il riconoscimento dell’eccezionalità consente di proseguire senza mettersi in discussione) il cui lungo elenco rischia di allungarsi in proporzioni Irachene, aspetta che il silenzio assordante che segue la deflagrazione dei delitti “impensabili”, venga rotto proprio da un’iniziativa di donne.
Un’iniziativa di donne italiane al Sud, non del sud, perché ormai lo sappiamo tutte che il denaro sporco si reinveste dovunque nel nostro Paese, anche al nord, e che intere correnti di partito vengono pensate ed organizzate con l’appoggio della criminalità. Le donne e gli uomini che hanno fatto della lotta alla mafia una ragione di vita, hanno fatto e faranno la loro parte. Rosa e tante altre hanno costruito se stesse, sono cresciute, hanno sconfitto gli stereotipi odiosi della fatale subalternità delle donne meridionali. Chi doveva fare la sua parte, e non l’ha fatta, è la politica delle istituzioni. Stringerle al loro compito è, forse, quella parte che spetta alle donne che si propongono di cambiare il modo di governare, il che è anche la condizione perché il Paese cominci a crescere realmente.
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