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Majka la vera custode del fuoco, delle stelle e della vita - di Marilena Menicucci

Majka la vera custode del fuoco, delle stelle e della vita - di Marilena Menicucci

"La canzone della cotogna... dimostra “come” il maschio possa andare oltre i limiti dell’individualismo settario, della superbia scatenata e dell’orgoglio gallesco." (Commenti al libro di Paolo Rumiz 'La cotogna di Istanbul')

Domenica, 14/11/2010 - Un canto si ascolta, si danza o si canta; impossibile costringere il ritmo di un canto, ‘nato dal cammino, dal battito del cuore e dal respiro’, dentro osservazioni scritte, obbligate a seguire la grammatica della prosa. Così per La cotogna di Istanbul, una storia, voluta dal protagonista Max solo come canto orale e corale, vicina alla complessa semplicità dei racconti del mito, dell’epica, di Dante e della Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse. Paolo Rumiz, infatti, l’ha messa per iscritto come ballata per tre uomini e una donna, in forma di storia lunga in corta riga, convinto all’opera dalla necessità di farne memoria, dopo la dipartita dell’amico Max.

Ogni commento in prosa, perciò, risulta manchevole ed estraneo al canto, ma le frasi della sottoscritta, se dimostrano tutti i limiti di una recensione, vorrebbero almeno comunicare un motivo, per cui è importante la lettura de La cotogna di Istanbul.

Alcuni possono considerarlo un originale libro scientifico di geografia, per gli itinerari molto dettagliati e inediti, che vengono tracciati e descritti da Vienna a Istanbul, attraverso i paesi balcanici, in particolare la Bosnia e soprattutto Sarajevo; per altri può costituire un testo di documentazione storica, sulla guerra, sul dopoguerra e sul tempo di pace nei paesi, che formavano la Jugoslavia; per altri ancora può rappresentare una teoria dei colori nero e giallo, un testo di linguistica o d’antropologia e molto altro. Ma, in questi casi rimarrebbero inspiegabili la commozione, il coinvolgimento e l’incanto, che la ballata cresce nel lettore. Da rimanere senza parole. Come davanti alla bellezza.

La cotogna di Istanbul, come la vita, raccoglie in sé, integrandoli in un tutt’uno, gli elementi dell’esperienza, del sapere e della sapienza. Forse Rumiz scrive questo libro per mettere in metafora la scrittura stessa: il racconto e l’ascolto di una storia sono determinanti per l’azione; nella storia, comunque passata, ci sono le potenzialità dell’agire futuro ed è quindi importante raccontarla e metterla per iscritto per le reazioni conseguenti, che può determinare. Per la corrispondenza tra racconto e tempo(passato, presente, futuro, ma anche senso interno) è fondamentale la modalità della narrazione e, se Rumiz sceglie il verso, le rime e il ritmo poetico di una ballata, vuol dire che s’avvia per il sentiero più segreto del bosco, quello noto ai più esperti montanari, ormai identici alla loro terra, in sintonia col battito del cuore di ogni elemento e dell’intero ambiente, uguali alla voce del silenzio, creature del tempo e del per sempre. La ballata della cotogna detta le regole per misurare lo scritto, che risulta valido solo se procura gli stessi effetti del racconto orale, quando “…nell’attesaessa (la storia) lievita come una pagnotta, si alimenta del suo stesso raccontoattraverso i commenti di chi ascolta; cresce anche di notte, con la lentezzae con le insonnie della gravidanza,diventa d’oro come una focaccia..”

Rumiz può essere soddisfatto, perché il suo libro agita nel lettore lo stesso brivido e identica attesa.

Perché l’informazione è così minuziosa nei particolari? Sono indicati con precisione date, situazioni, luoghi, nome e biografia dei personaggi, usando le lingue corrispondenti; lemmi non facili da memorizzare, perché riguardano i diversi idiomi europei, soprattutto quelli dell’est, come se il libro, dentro lo spazio delle sue pagine, pressasse la Torre di Babele. Tanti chiarimenti, cantati, aiutano ad ascoltare il battito interno dei fatti e il lettore conquista la convinzione che tutti gli elementi del racconto siano unificati e alimentati da un che simile al senso della vita stessa, qualcosa che supera i limiti dell’apparenza, un dato, il dato, comune a tutti gli esseri umani: il bisogno del per sempre?

L’ostinazione di Rumiz a informare, cantando, non dipende tanto dal vizio giornalistico (Cosa? Chi? Come? Dove? Quando?), bensì dalla tensione fraterna ad indicare la strada, per dirci come egli stesso proceda e per condividere tutto quello che sa del mistero della vita con chi sta leggendo; è necessario sapere il più possibile, per condividere e appassionarsi. Perché il libro è il racconto di una passione, rivolto a chi è capace d’ascolto, anche di sé, per appassionarsi alla passione altrui come alla propria. Se non si può capire tutto nella vita, l’argomento cantato colpisce lo stesso a fondo, come una carezza del vento: inafferrabile e così materiale, nello stesso tempo, da far riemergere la personale passione e l’individuale nostalgia per l’amore perduto.

Dove si concentra la ricerca e qual è la maggiore conquista di Rumiz?

Il canto del femminile. La ballata è un canto al femminile non solo perché la protagonista è Masa, che, come dice il sottotitolo, è amata da tre uomini (Vuk, Dusko e Max), ma per il punto di vista, identico all’anima del femminile: il fatto che la protagonista sia portatrice di un bell’incrocio di Grecia e Tartaria, con accanto qualcosa che veniva dal mondo sefardita rappresenta la capacità d’integrazione della donna, che è bella per questo. Invece di combattere contro le diversità, la donna le trasforma nella sua identità, non solo somatica, ma anche culturale, come dimostrano il suo agire, identico al parlare e, soprattutto, il sapore e l’odore di vita, che quelle azioni determinano nella situazione vissuta.. L’intensità dell’incontro tra Masa e Vuk, ad esempio, è narrata attraverso le azioni di lei (gli slacciò le scarpe…, poi lo lavò in ogni angolo del corpo…), per dire al lettore anche contenuto e significato del silenzio della donna: non solo l’attesa di anni, il desiderio represso, la gioia sconfinata e la commozione, ma anche la paura, la premonizione di una fine possibile per quel corpo amato e quindi la pietà: la Pietà. Anche la disperazione dopo la morte di lui e la reazione sono descritte al femminile, attraverso le azioni (non si tagliò i capelli, mise due lumini sul davanzale…cucì, pulì, riordinò…). L’incontro tra Masa e Max, lo stesso, è cantato con il fare (la tavola da pranzo era imbandita: mele al forno, timballo con la carne…): la forma e lo spazio, entro cui si muovono i pensieri, i sentimenti e le emozioni, che muovono il desiderio verso la conoscenza e la ricerca, lontano dalla guerra. Max, infatti, osservandola agire, la conosce, iniziando dalle caratteristiche del suo volto (che presi a uno a uno erano tipici di una contadina, ma nell’insieme emanavano una dolcezza mitee una nobiltà), per arrivare all’insieme della persona (una combinazione sconosciutadi sensualità e di autocontrollo, di forza contenuta e di timidezzafierezza femminile e devozione).

Dal suo stesso fare la donna arriva ad elaborare considerazioni teoriche, ad esempio, sulla gente che è capace d’aiuto più in guerra che in pace e che coloro, che bombardano una città come Sarajevo, sono ‘primitivi, ignorano il gusto di vivere’. La conquista teorica nella donna diventa subito una decisione pratica, per cui la protagonista apre la sua casa ai bambini, per insegnare loro come fare il caffè, come ricevere gli ospiti e come presentarsi agli sconosciuti, per vincere la guerra con ‘riti di resistenza al Male’.

L’agire come valore femminile è identico al peso delle parole, che nel testo sono trattate come ‘esseri viventi’, quasi che nel nome della parola sia scritto il mistero dell’essere e dell’esistere; per questo, ad esempio Rumiz sottolinea che Vrata, il villaggio di nascita di Masa, significa “porta”, stabilendo una continuità tra questo nome e il caratteristico modo d’essere di Masa, uguale al significato vitale, terapeutico e redentorio della canzone della cotogna. L’attenzione al femminile è dimostrata anche dai versi, dedicati ai riti in generale e a quelli della nascita in particolare (gli scongiuri sul cordone ombelicale), come agli altri contro il male (le erbe per vincere la paura e i pericoli del bosco), ma tutto l’impianto della storia è matrilineare, come dice la dedica ‘In ricordo di chi ha portato il numero 18450’, la nonna Ljuba, che è la portatrice di quel numero nel lager croato di Jasenovac e la traghettatrice dei familiari da questo mondo a quell’altro. Quasi che la donna è madre della vita sempre e comunque, quando è portatrice del femminile, chè da la luce (gialla e bianca) anche nel momento della morte, quando appare vestita di nero.

I maschi, invece, nel testo sono collegati in genere alla violenza. Fra i primi, che s’incontrano nella ballata, ci sono dei croati, che, bambini, prendono a calci un cucciolo di cane abbandonato e, adulti, lo sgozzano. Vuk, promesso sposo di Masa, due giorni prima del matrimonio, uccide una donna che l’amava; altri sono partigiani e altri ancora cecchini, comunque protagonisti di violenze, spinti dall’odio razziale contro i diversi, per affermare la superiorità della propria identità.

Il maschio può uscire dai limiti circoscritti di questo destino violento?

La canzone della cotogna, che canta l’amore infelice e per sempre di due giovani, risponde alla domanda e dimostra “come” il maschio possa andare oltre i limiti dell’individualismo settario, della superbia scatenata e dell’orgoglio gallesco e “come” possa sperimentare l’integrazione fra componenti diverse e persino opposte, quali possono essere considerate la vita e la morte.

Se la ballata di Rumiz racconta una storia identica alla canzone, si rafforza la convinzione che il maschio supera i suoi limiti e trova la sua redenzione nella cotogna, nella ricerca, nel viaggio verso e per amore e nell’abbandono a questa relazione privilegiata. La conquista di sé, però, è un viaggio continuo, è il viaggio. Sentirsi in viaggio è una condizione tra tante, mentre la relazione, l’amore e la passione verso la donna sono la condizione, per perdere e ritrovare se stessi.(I critici potrebbero riscrivere la letteratura attraverso questo libro di Rumiz, insieme agli studiosi delle varie scuole di psicoanalisi). Se la relazione con la donna provoca nel maschio una serie di domande, da spingerlo al viaggio, la direzione, da scegliere, però, abbisogna di un ulteriore incontro e di un confronto: con sé, con gli amici e con il saggio.

Punto di partenza del viaggio è il riconoscimento dell’istinto: Max ‘fiutava i suoi odori come un lupo’; a Sarajevo sentiva il suo ‘odore rancido di guerra, guerra solo ibernata dalla pace’; di Masa lo colpì la ‘meraviglia della pelle ben liscia come ciottolo di fiumeprofumato di biancheria pulita…in lei fiutò un impasto balcanicofatto di sangue e di miele, di polvere e gelsomini’. Seguendo il suo istinto Max ‘andò dietro a quella donnacome un tempo Orfeo nell’al di làalla ricerca della sua Euridice’. Dal suo corpo, dalla materia dell’esperienza e dalla relazione con la femmina e col femminile il maschio comprende che per diventare se stesso, vero uomo, deve accettare il vuoto, l’assenza, la perdita e il viaggio. Come decide di fare il nonno Omer, privato di Ljuba, commerciando legnami nel nord e nell’est d’Europa. Come fa Dusko, che parte per la Russia, quando la moglie Masa torna da Vuk. Max lo stesso, lontano da lei, nel cuore la canzone della cotogna, comincia il suo viaggio nella testa e nel cuore, ponendosi delle domande sulla canzone, con cui Masa lo saluta nel loro primo incontro: una sevdalinka (una di quelle cose disperateemulsioni di nera malinconiache il Danubio soltanto sa produrrequando sfiora queste montagne buie) che rimanda alla saudade della penisola iberica e alle canzoni turche Ayrilik. Ma com’è possibile questo collegamento tra Oriente e Occidente? E poi perché le cotogne sono l’oggetto del canto?

Mettersi alla ricerca di una risposta, vuol dire cominciare un viaggio e confrontarsi, in un primo momento con gli amici, che aiutano Max a comprendere: il valore della cotogna ‘dal folle profumo (…un misto di pera, pesca e limone…non un sapore ma la quintessenza dell’odore…un fruttoche conteneva in sé ancora il fiore una meraviglia che prometteva il bel tempo nel cuore dell’inverno…una promessa di resurrezione)’, l’attuale situazione balcanica, il perché si continui ad amare la Bosnia (qui la morte non si nasconde come una vergognama la si può trovare dappertutto…anche esportarla) e l’importanza del racconto come unica possibilità di vincere la morte (il messaggio dell’amico pittore Affan dalla faccia da predatore senza pace).

Ma, se si vuole il sapere e la sapienza, bisogna abbandonare il costituito e cercare ancora il diverso, come fa Max, che incontra un uomo diverso da tutti gli altri: un rabbino, saggio, ebreo, socialista, che canta l’Internazionale in yiddish. L’incontro con il diverso lo aiuta a sapere, a interpretare, a capire quello che gli accade e a prendere decisioni; l’incontro orienta il suo agire senza imposizioni, liberandolo da false responsabilità, perché ‘non sei tu che devi fare il viaggio, ma il viaggio che costruisce te’. Max ha bisogno d’incontrare il rabbi tre volte, quando i suoi pensieri diventano ossessione, costringendolo all’immobilità, quasi che il problema sia l’interruzione del viaggio. Il rabbino offre ascolto e l’opinione, che esprime, scioglie i nodi e riapre nella mente di Max il desiderio della ricerca e di una nuova meta.

Si rimanda al libro per seguire il canto di questo lungo andare e tornare e andare per sempre, quasi che la morte sia un atto semplice: deporre il corpo ‘come la borsa di un bambino a scuola’; un momento all’interno di un viaggio, che può continuare in eterno, quando si fa in relazione e si segue la voce, che canta dentro e fuori.

Andare a Istanbul per comperare le cotogne è come fare poesia e la poesia è un per sempre; una conquista d’eternità possibile, quando ci si lascia guidare dallo spirito del femminile, perché ‘è solo majka la vera custode del fuoco, delle stelle e della vita’.



Paolo Rumiz

La cotogna di Istanbul

Feltrinelli Editore, pagg 168, 16 euro

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