Burundi - Da quindici anni la struttura residenziale, educativa e sanitaria è finalizzata a sostenere i problemi della popolazione. Il merito è di una donna di straordinaria energia
Providenti Giovanna Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2008
Il Burundi è un piccolissimo stato africano, incastrato tra il Congo, la Tanzania e il Ruanda, al quale solitamente lo si associa per via della guerra fratricida tra hutu e tutzi e del genocidio che nel 1994 ha sconvolto i due paesi, uccidendo, torturando e violentando milioni di donne, uomini e bambini. I sopravvissuti, in maggioranza donne e vedove, hanno faticosamente raccolto i cocci, inventandosi forme creative di auto-aiuto, di riconciliazione e di concreto sostegno sanitario ed educativo, costruendo realtà autoctone che meritano di essere scoperte e visitate (vedi Federica Ruggiero, “Pratiche di resistenza delle donne nel genocidio rwandese”, in “La nonviolenza delle donne”, Lef, 2006).
Ho avuto la fortuna di incontrare una di queste realtà attraverso la conoscenza personale di Marguerite Barankitse, fondatrice della Maison Shalom. Ma prima di parlare di lei vorrei dare ancora qualche notizia di tipo “storico-geografica”.
Per raccontare questa regione del mondo disastrata dalle guerre civili non potrebbe esserci immagine più errata di quella della divisione o dell’alternanza, che lasciasse immaginare ora uno ora l’altro dei gruppi vittime o dominanti. Sarebbe una cieca e impropria semplificazione: perchè ciò che più la caratterizza è invece la comune sofferenza, condivisa da tutti, nessuno escluso.
La distinzione tra due gruppi appartenenti ad uno stesso popolo, talvolta persino a una stessa famiglia, ha origine nella storia coloniale: sia il Burundi che il Rwanda erano stati annessi dalla Germania nel secolo diciannovesimo e, in seguito alla prima guerra mondiale, affidati dalla Società delle nazioni al Belgio, il quale ha portato avanti il processo di stravolgimento culturale già iniziato dai tedeschi cancellando le tradizioni, semplificando i rapporti sociali e famigliari e imponendo la suddivisione “etnica” tra hutu e tutzi sulla base del numero delle vacche pro-capite (con più di 10 vacche si era tutsi, sotto hutu). Non a caso questi ultimi sono sempre stati la maggioranza, più dell’80%.
L’accrescersi delle violenze tra i due gruppi, che tra colpi di stato, dittature militari e disordini vari, si sono alternati al potere, non ha avuto tregua fin dal 1962, anno dell’indipendenza dal Belgio, ed ha visto nel 1972 un primo importante massacro di cui vittime sono stati soprattutto i componenti del gruppo “hutu”, che sono stati sia uccisi sia costretti a fuggire in Zaire e in Tanzania. In seguito, nel 1993-94, il genocidio più noto alla comunità internazionale è iniziato contro gli hutu, ma si è presto capovolto provocando il gigantesco massacro di tutsi ed hutu moderati, compiuto dagli hutu al potere, che in Rwanda ha mietuto un milione di morti e in Burundi e Tanzania l’affluire di migliaia di profughi. Da quattro anni, in entrambi i paesi sconvolti da più di dieci anni di guerra, è iniziato un lento e non facile processo di pace, che prevede una equa ripartizione delle istituzioni fra hutu e tutsi, e ha avuto come prima conseguenza la chiusura dei campi in Tanzania e il rientro di decine di migliaia di profughi e rifugiati, sia dell’uno che dell’altro gruppo, con conseguente aumento di popolazione, carenza alimentare e problemi sanitari.
Ascoltando i racconti diretti di Marguerite Barankitse, una donna dallo sguardo intenso, il volto trasparente e le parole chiare e severe di chi ha fatto una scelta forte e non teme né critiche né minacce, la percezione più immediata è quella di trovarsi di fronte non soltanto ad una donna, ma alla metafora della forza, come la figura femminile del gioco dei tarocchi, che con sguardo sereno domina le fauci aggressive e prepotenti di un leone.
Mentre racconta mi accorgo che lei quasi nemmeno si ricorda se i “figli” che ha provato a salvare, quel 24 ottobre del 1993, nascondendoli in casa propria, fossero hutu o tutzi, ma il numero lo ricorda bene: ben 72 uccisi di fronte a lei, altri sette, nascosti dietro l’altare di una cappella, miracolosamente scampati, altri diciotto raccolti dalle braccia dei genitori massacrati.
“Questo era il segno che qualcosa poteva essere fatto perchè l’odio non avesse l’ultima parola”. Ricorda bene la sua determinazione di quel giorno perchè, mi ha detto, da momenti come questi non si ritorna indietro: avrebbe fatto di tutto, proprio di tutto, pur di salvare quanti più bambini possibili dalla morte e dalla violenza. E in un mese ai venticinque bambini scampati all'orrore di quel giorno, di cui erano stati responsabili anche membri della famiglia di Marguerite stessa, se ne erano già aggiunti più di duecento.
“Non ho paura della vita. La cosa più importante è smettere di rincorrere le preoccupazioni e fare tutto quello che si può fare per migliorare la vita propria e altrui”, mi ha detto Maggi, come tutti la chiamano affettuosamente. E lei, ridendo, ha confessato che in molti la conoscono come “Maggi la pazza”, nel bene e nel male.
“Come avrei potuto mettere su tutto questo senza almeno un po’ di lucida follia?”
Ha iniziato accogliendo in casa propria quanti più bambini poteva, adottandoli tutti come figli suoi e garantendo ad ognuno non soltanto l’esistenza ma anche un futuro lavorativo ed un’abitazione. Ha continuato usando tutte le sue risorse economiche e gli aiuti internazionali che man mano sono sopraggiunti, per acquistare e costruire altre strutture, fondare la Maison Shalom e, in meno di quindici anni, ritrovarsi a coordinare una realtà di dimensioni amplissime: una ONG formata da diverse strutture, il cui scopo è garantire un avvenire migliore a migliaia di bambini, prendendosi in carico centinaia di orfani, offrendo servizi di vario genere (sostegno psico-sociale, ricerca di reintegrazione famigliare, servizi sanitari, prevenzione dall’Aids, assistenza a vittime abusate, educazione alla pace, etc) a migliaia di persone al giorno nelle 130 "maisons” costruite intorno alla città di Ruyigi. La Maison Shalom, in cui lavorano quotidianamente un centinaio di infermieri, educatrici e psicologi, ha oggi in cura più di ventimila bambini, alcuni adottati interamente altri parzialmente, ed è ormai una realtà internazionale con sedi amministrative anche in Svizzera e in Francia (Maison des Anges) e sostegni provenienti da tutto il mondo. Anche in Italia, dove Marguerite è stata lo scorso anno per far conoscere il suo progetto, incontrando anche la sindaca Letizia Moratti, esiste un gruppo di “amici di Maggy” dalla Fondazione Università IULM di Milano, che dal 2006 collabora nel sostenere la realizzazione dell’ospedale “Rema” a Ruyigi e l’intero “projet du développement durable” della “Maison Shalom” rivolto sia all’educazione che all’assistenza sociale e sanitaria dei bambini del Burundi. L’ampliarsi del suo progetto ha fatto di Marguerite una donna di fama che ha ottenuto anche importanti riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio Nobel dei bambini a Stoccolma in presenza della Regina di Svezia e il Premio Nansen per i Rifugiati del 2005 promosso dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Inoltre Christel Martin ha scritto nel 2005 un libro "La haine n'aura pas le dernier mot: Maggy, la femme aux 10.000 enfants", che in italiano è stato tradotto con il titolo “Madre di diecimila figli” (edizioni Piemme).
Ma ciò che più mi sembra rilevante dire a proposito di Maggy e del suo progetto, ormai diventato una realtà incisiva in questo piccolo pezzo di Africa, è che si tratta di una risorsa nata e cresciuta in maniera autoctona, grazie alle energie e alle risorse provenienti innanzitutto dai burundesi stessi. Riconoscimenti e aiuti internazionali sono arrivati dopo, in forma di dono o forse di scambio: ma certo non di imposizione coloniale.
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