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Maestra ‘cattiva’ o ‘cattiva maestra’?

Maestra ‘cattiva’ o ‘cattiva maestra’?

Simone de Beauvoir - La sfida della cultura femminista è nella ricerca di una sintesi che coniughi le istanze innovative del pensiero della differenza con l’eredità irrinunciabile del femminismo umanistico

Battaglia Luisella Lunedi, 28/09/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2009

Sono passati 60 anni dalla pubblicazione de Il secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir, un libro che appartiene alle donne (e non solo) come analisi, come provocazione, come cruciale testimonianza storica. Testo scandaloso, destinato a suscitare fin dal suo apparire le reazioni più indignate da destra come da sinistra, criticato da François Mauriac come da Albert Camus, messo all’indice dei libri proibiti, può considerarsi una delle opere principali della saggistica del 900 per l’ampiezza della visione e la portata teorica, filosofica ed etica. Insieme ad “Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf è probabilmente il libro che ha esercitato il maggior impatto sull’elaborazione di teorie e pratiche dei movimenti delle donne nella seconda metà dello scorso secolo.

Quale eredità lascia al femminismo contemporaneo? L’opera della de Beauvoir – che spazia dalla sessualità alla maternità, dalla famiglia al lavoro salariato, dall’alienazione alla compromissione della donna nella propria liberazione - può collocarsi senz’altro nell’alveo del cosiddetto femminismo ‘umanistico’ al cui centro è il valore guida dell’eguaglianza, secondo la tradizione emancipazionistica più classica. Una tradizione che nega l’esistenza di una ‘natura’ femminile intesa come un’identità differente: la donna è l’eguale dell’uomo, è una persona razionale, ha valore di fine, non di mezzo – è la tesi centrale della “Vindication of Rights of Women” (1792) di Mary Wollstonecraft - e deve pertanto godere dei diritti pieni della cittadinanza, da cui è stata arbitrariamente esclusa. Sarà Olimpia de Gouges a chiedere – in polemica con Rousseau che vagheggia un ideale femminile esemplato dalla docile Sophie, contraltare di Emile - l’estensione alle donne della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” proclamata dalla Rivoluzione francese. Nel 1869 ne “La servitù della donna” John Stuart Mill affermerà con assoluta nettezza che ciò che si definisce ‘natura’ femminile è in realtà un prodotto culturale, il frutto di un costume e di un’educazione che ha mirato nei secoli a plasmare il carattere delle donne, deprimendone forzatamente taluni tratti, come l’intraprendenza e l’ambizione, per esaltarne invece altri, come la docilità e l’abnegazione. La de Beauvoir porta in certo modo a compimento la linea di pensiero propria dell’emancipazionismo liberale attingendo a fonti letterarie, storiche, antropologiche, filosofiche per la sua opera di decostruzione di un mito, l’’eterno femminino’, equivalente, per molti aspetti, a suo avviso, all’’anima negra’ e al ‘carattere ebraico’. Lungi dal designare una differenza radicale e naturale, l’essenza della femminilità non sarebbe che un mito che traduce l’angoscia degli uomini dinanzi all’ambiguità dell’esistente e la loro volontà di confinare la donna in un mondo chiuso e diverso, identificandola con l’inessenziale e il non essere. “La donna –scrive – si determina e si differenzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei: è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro. Qual è dunque l’umanità della donna? Da un lato appare quasi sovra- umana in talune idealizzazioni – si pensi a Jules Michelet che la pone su un altare, come una dea destinata a celebrare i sacri misteri della natura o a Auguste Comte che la esalta come il ‘sesso affettivo’, apportatrice d’amore per l’intera umanità; dall’altro si direbbe quasi sub-umana nella sua vicinanza al mondo naturale e animale, non pienamente razionale, comunque destinata ad essere guidata da un ‘autorità maschile – paterna, fraterna, maritale - : ‘sexus sequior’ , appunto, come nella classica visione misogina di Aristotele e Tommaso d’Aquino. Mai comunque solo umana, mai chiamata a condividere con l’uomo i diritti e le responsabilità della politica e della storia”.

Da qui prende le mosse l’analisi della de Beauvoir che trova il suo riferimento teorico, oltre che nella dialettica hegeliana e marxiana, nella filosofia esistenzialistica al cui centro è il tema della ‘trascendenza’. In questo quadro si colloca in termini assai originali la ‘questione femminile’. Pur essendo come ogni individuo una libertà autonoma, la donna si scopre in una società in cui le viene imposta la parte dell’Altro. Il dramma della sua condizione consiste nel conflitto tra la rivendicazione fondamentale di ogni soggetto che si pone sempre come essenziale e le esigenze di una situazione che fa di lei un’inessenziale. Come potrà dunque rivendicare la sua piena umanità? Solo a condizione che accetti il rischio e non sia tentata dalla fuga dalla libertà, potrà profilarsi per lei una possibilità di conversione: anziché arrestarsi atterrita alle soglie della realtà dovrà rispondere alla sfida del mondo e “fare nell’angoscia e nell’orgoglio il noviziato della sua trascendenza”. Anziché vegetare nell’immanenza, la donna dovrà accedere alla trascendenza oltrepassando il dato della sua condizione naturale e assumendo la libertà e la responsabilità delle sue scelte. Ma – avverte la de Beauvoir - è un cammino tutt’altro che agevole: la donna spesso si compiace nella parte dell’Altro e l’uomo trova in lei una complicità profonda. D’altra parte, nella costruzione di situazioni di inautenticità per le donne, gli uomini hanno creato senza accorgersene le condizioni per la loro stessa illibertà.

“Donna non si nasce, si diventa”. La celebre frase con cui si apre la seconda parte del saggio prefigura con largo anticipo il concetto di genere e la nozione della costruzione sociale dei sessi. La credenza nella piena umanità della donna e nel suo diritto a definire se stessa – al centro del femminismo ‘umanistico’- è parsa tuttavia alle odierne esponenti del ‘femminismo differenzialista’ una visione legata ad un modello di emancipazione omologante, prettamente maschile. Numerose sono le critiche rivolte al Secondo sesso dalle teoriche del pensiero della differenza. La de Beauvoir, in sostanza, additerebbe alle donne un ideale di persona umana di tipo universalistico e di ascendenza kantiana, senza avvedersi che si tratta di un universalismo fittizio di cui resta celata la natura sessuata e androcentrica. Ciò spiegherebbe la sua sottostima delle tradizionali attività di cura delle donne e soprattutto la sua svalutazione della procreazione, ritenuta ‘funzione’ meramente naturale Com’è noto nella maternità e, soprattutto, nella mistica che l’accompagna, la filosofa francese ravvisa una delle cause principali della dipendenza della donna, la cui ‘disgrazia’ è di essere destinata a riprodurre la vita. Si tratta di una delle tesi più contestate del saggio. Col sorgere del ‘pensiero della differenza’ e il prevalere nel femminismo della dimensione culturale su quella ideologica, si privilegiano infatti i temi relativi al corpo, alla sessualità alla fisiologia, riguardati come specifici delle donne. Decisiva è altresì la distinzione tra maternità come istituzione, controllata dalla società patriarcale e fonte di oppressione, e maternità come esperienza originaria, forza unificatrice del movimento femminista. Studiose di psicoanalisi e psicologia sociale – la più nota è Carol Gilligan col suo libro “Con voce di donna” – riflettono sul ‘pensiero materno’, esaminando le capacità e le attitudini che l’esser madre avrebbe sviluppato nella donna.

Potremmo dire che se il mito della donna come Altro era per la de Beauvoir uno dei principali ostacoli alla realizzazione della donna come persona, ora tale alterità non è più vissuta dal femminismo post-moderno come una condizione che deve essere trascesa, bensì come una peculiarità da rivendicare orgogliosamente: un modo d’essere e di pensare che significa estraneità rispetto alla cultura dominante e ai suoi valori, ma che è insieme condizione privilegiata per avviarne una critica radicale. La distanza tra i due femminismi non potrebbe essere più netta. In effetti, occorre aggiungere, l’obiettivo della lotta della de Beauvoir era di garantire alle donne l’accesso al mondo dei valori creato dagli uomini nella convinzione che “l’avvenire non potrà che condurre ad una loro assimilazione sempre più profonda nella società una volta maschile”. In tal modo, veniva negata una specifica creatività femminile capace di esprimere le esperienze peculiari – storiche, sociali, biologiche – delle donne e le loro particolari letture del mondo. Non si deve tuttavia dimenticare che l’auspicio generoso che guida la sua visione è quello di un incontro fraterno tra i sessi che consenta di riconoscersi reciprocamente nella scoperta di un’alterità finalmente positiva: un incontro che significhi dialogo paritetico, nella dialettica della differenza e della somiglianza. ‘Fraternità’ è davvero parola chiave, dal momento che nell’uno come nell’altro sesso si svolge lo stesso dramma, della carne e dello spirito, del finito e del trascendente :”ambedue sono rosi dal tempo, spiati dalla morte, hanno lo stesso bisogno essenziale l’uno dell’altro e possono trarre dalla loro libertà la stessa gloria; se sapessero goderne non sarebbero tentati di disputarsi falsi privilegi e la fraternità potrebbe nascere tra loro”.

Probabilmente la sfida che sta dinanzi alla cultura femminista oggi consiste nella ricerca di una nuova sintesi che sappia coniugare le istanze innovative espresse dal pensiero della differenza con l’eredità irrinunciabile del femminismo umanistico, espressa esemplarmente da Simone de Beauvoir, forse maestra ‘cattiva’, come è stata talora definita, per la sua severità e intransigenza, ma non certo ‘cattiva maestra’.



 

(28 settembre 2009)

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