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Madri in affitto e neonati su ordinazione

Madri in affitto e neonati su ordinazione

Parliamo di bioetica - C’è il rischio di una nuova forma di prostituzione legalizzata del corpo femminile: quella riproduttiva

Battaglia Luisella Lunedi, 07/03/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2011

Recenti notizie di cronaca relative a star che - come Nicole Kidman - hanno soddisfatto il loro desiderio di maternità senza faticose gravidanze, grazie al contributo di un’altra donna che ha ‘affittato’ per nove mesi il suo utero in cambio di denaro, ripropongono la questione delle cosiddette ‘madri surrogate’. Le nuove tecnologie riproduttive consentono scelte fino ad ieri impensabili ed estendono la nostra autonomia oltre le frontiere dell’etica e del diritto tradizionali: ci si avvia - si è rilevato - verso forme più sofisticate di cooperazione nella procreazione. Perché mai rinunciarvi? Quali ragioni ci impediscono di immaginare rapporti parentali fondati, anziché sul legame biologico, su accordi liberi e volontari tra adulti?

Nella riflessione bioetica contemporanea si è in tal modo venuta delineando una prospettiva che si potrebbe definire neocontrattualismo procreativo, secondo lo scenario disegnato in un libro ormai classico della femminista Carmel Shalev, Nascere per contratto. Ricordiamone in breve la tesi centrale. L’evoluzione della società umana è caratterizzata, a suo avviso, dal progressivo imporsi del contratto: perché dunque non applicare alla procreazione tale modello? Esso, oltre a sancire il potere economico della donna, consentirebbe la transizione a una visione più aperta di famiglia, quella di individui liberamente cooperanti e quindi più atti ad assumere la responsabilità e la cura dei figli. La Shalev afferma la piena capacità delle donne di assumere impegni e di stipulare contratti in ordine al proprio potere di procreare. A suo dire, il paternalismo della cultura giuridica dominante sarebbe responsabile dello stato di soggezione della donna, ritenuta biologicamente diversa e psichicamente instabile e, pertanto, incapace di scegliere quale ruolo giocare nel processo riproduttivo. La procreazione femminile, scrive, “è ancora vista come irrazionale in quanto non sottomessa alle regole della ragione”. Troppi sarebbero ancora i pregiudizi sulla donna e sulla gravidanza imposti dalla cultura paternalista: tra questi lo stereotipo della femmina volubile, emotiva, portata a sviluppare un particolare sentimento di affezione verso il nascituro, al quale non è legata geneticamente.

Questa, in estrema sintesi, la tesi provocatoria del libro che, se affronta in maniera intelligente e spregiudicata, alcune importanti questioni lascia tuttavia insoddisfatti e perplessi circa le risposte. Resta da chiedersi, innanzitutto, in che senso il contratto possa rappresentare una liberazione per la donna. Non a caso, si è da più parti paventato il rischio di una crescente mercificazione del corpo femminile e di una nuova forma di prostituzione legalizzata - quella riproduttiva, accanto a quella sessuale. Ma possono poi considerarsi legittimi eticamente tali contratti? Non sono forse configurabili nuove forme di schiavitù in queste pratiche lesive della dignità della persona degradata a mezzo? Non caso la cessione di un organo del nostro corpo (l’utero) appare per la nostra legislazione in contrasto con quelle regole (art.5 del Codice Civile) che sottraggono all’autonomia negoziale gli atti di disposizione del corpo umano o di sue funzioni.

Il contratto, come s’è visto, sarebbe per la Shalev un modo di “rendere razionale” la procreazione. Sennonché è una visione ben limitata di razionalità quella ispirata alla “ragione tecnica” del mercato, a cui la donna dovrebbe accedere per contrastare le immagini stereotipate che la vogliono dominata dall’affettività. In tal modo, paradossalmente, la donna si affermerebbe come soggetto autonomo solo nella misura in cui può vendere o affittare una parte di sé....

Parlare di cooperazione e di modello aperto di famiglia è certo assai suggestivo: ma cosa c’entra tutto questo col contratto? Contratto significa interessi da comporre più che responsabilità da condividere. La cronaca ha mostrato esempi clamorosi di diritti in conflitto tra le diverse figure parentali - ad esempio, tra la madre “portatrice” e la madre “committente” - ciò che ha consigliato il legislatore ad affermare prudentemente l’illiceità dei cosiddetti “contratti di surrogazione”.

Ma, al di là dell’illiceità giuridica, sorge la domanda se sia ammissibile - e saggio - trasporre nel campo delicatissimo della riproduzione della vita la logica dell’economia di mercato. La stessa tesi centrale del libro - e cioè che il modello contrattuale nei rapporti parentali si fondi sulla percezione della donna come soggetto autonomo - mi pare assai poco persuasiva per almeno due ragioni. In primo luogo, la Shalev appare a sua volta prigioniera dello stereotipo dell’emotività: non solo sembra quasi vergognarsi del legame simpatetico profondo che si instaura tra la madre “portatrice” e il nascituro e pretende di razionalizzarlo attraverso il contratto, ma pare quasi ritenere che la razionalità sia il contrario del sentimento, che si tratti di una facoltà a parte, rigidamente separata dal mondo delle passioni e delle emozioni. In realtà la Shalev si muove ancora nell’ottica di un modello di razionalità tecnologico asettico e neutrale laddove si tratta di evidenziare come ragionamento pratico - che si ispira, anziché a una razionalità forte e geometrica, a una ragione ragionevole - è un pensiero intimamente connesso all’azione, al sociale, ai dati mutevoli dell’esperienza. In secondo luogo, l’introduzione della figura del contratto non muta sostanzialmente il vecchio ordine: è una forma nuova che veicola valori vecchi. La sua logica è, ancora una volta, quella dei diritti in competizione. Ma, occorre chiedersi, basta la via dei diritti individuali per apprestare un quadro di garanzie per la libertà di donne e di uomini e, soprattutto, per la tutela dei soggetti più deboli? Si tratta, a mio avviso, di una prospettiva riduttiva, unilaterale, che dovrebbe far posto a una visione globale dei complessi rapporti relazionali tra tutti i soggetti in gioco, specie per evitare il rischio che non si presti la dovuta attenzione agli interessi di chi non c’è ancora.

Ancora una volta, quello di cui siamo in cerca, è un modello capace di integrare in sé l’apporto della cultura femminile e, in particolare, di associare alla dimensione del diritto quella della cura. Per questo spetta soprattutto alle donne che, nell’ambito di una bioetica di genere, hanno elaborato una critica del sapere dominante alla luce della differenza sessuale, proporre percorsi alternativi, nuovi modi di rapportarsi al pensiero e al mondo.



(7 marzo 2011)

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