A tutto schermo /2 - Intervista con l’attrice Marina Pennafina, coprotagonista di Maternity Blues
Emanuela Irace Lunedi, 23/05/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2011
L’argomento stringe il cuore e inchioda alla realtà, “Maternity Bues”, film di Fabrizio Cattani, non lascia spazio a mediazioni né si sofferma su giudizi di valore ma obbliga al pensiero, raccontando con coraggio quel sottilissimo limes, non sempre percettibile e quasi mai confidabile, che segna il percorso su cui ogni madre si avventura. Luci e ombre. Fotogrammi di una memoria femminile che se portata all’estremo atterrisce. Nessuna esperienza salvifica quando il confine si assottiglia tra le pieghe di un gesto inaccettabile specie se a compierlo è una donna. Medea è più spaventevole di Cronos. Una madre non può togliere la vita. Ne parliamo con Marina Pennafina, coprotagonista con Chiara Martegiani, Andrea Osvard e Monica Baudelaver del film Maternity Blues, quattro storie di donne che uccidono per vivere, madri assassine:
E’ possibile arrivare a un gesto così estremo senza poi desiderare la propria morte?
Credo di sì, la natura può tutto anche andare contro se stessa, non sappiamo però quale inferno vivano le donne che si sono lasciate scivolare in un tale dolore. La nostra civiltà santifica la funzione materna, a differenza di altre culture le nostre madri vivono un controllo sociale pesantissimo e se non ti adegui a un certo modello sei fuori.
Vuoi dire che non c’è condivisione rispetto al ruolo materno?
Assolutamente no, la maternità è un tabù, anche le stesse donne faticano a riconoscere sentimenti distruttivi che paradossalmente, però vengono accettati se poco eclatanti. La maggior parte uccide in modo metaforico facendo del figlio un prolungamento di se stessi, quando va bene.
E quando va male?
Si annienta il proprio figlio con mille gesti quotidiani. Si uccide il carattere, si creano dipendenze, si maschera l’affettività, si utilizzano mille tecniche, quasi sempre inconsce per poter restare al centro di una relazione, evitando che si sposi, ammalandolo, allontanandolo, o semplicemente trattenendolo bambino.
Mentre invece i figli sono del mondo...
Sì. Sono un atto di generosità. L’ultimo atto sovversivo di una società conformista e ottusa come la nostra. Vedi, in questo film ho imparato a guardare la realtà con occhi diversi. Abbiamo ascoltato le storie di tante donne rinchiuse nell’Opg di Castiglion delle Stiviere, la maggior parte di loro vive sospesa, in un dolore troppo intenso per essere condiviso.
Nel film interpreti Vincenza, una donna adulta e profondamente cattolica che sopprime il figlio buttandolo in lavatrice, come hai fatto a calarti nel ruolo?
Ho dovuto attingere ad altri dolori della mia vita per riuscire a portare nel film la drammaticità di un personaggio che non riesce a perdonare se stessa né a salvarsi attraverso la fede. Vincenza è una donna che attraverso l’omicidio del figlio ha voluto uccidere una parte di se stessa, il suo lato più profondo e più maltrattato dalla vita, dalla noncuranza del marito, dalle umiliazioni. A suo modo uccide per vivere. Ma alla fine non regge e cerca il perdono divino nell’al di là.
La cifra utilizzata dal regista è la malattia mentale, la depressione post partum, non ti pare un concetto assolutorio, rispetto a una lucidità che non si vuol riconoscere in chi uccide il proprio figlio?
E’una spiegazione. In questo momento storico usiamo questa categoria “medica” per interpretare una realtà spaventosa. Considera che negli ultimi anni gli infanticidi sono cresciuti in maniera esponenziale. Probabilmente c’è una “malattia” più vasta che riguarda l’intera società. Fabrizio Cattani è riuscito a raccontare il dolore che una persona prova quando raggiunge la piena consapevolezza dell’azione compiuta, utilizzando un linguaggio poetico. Considerato che è un uomo è stato bravissimo e sono molto fiera di aver lavorato con lui.
Lascia un Commento