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Madri alla ricerca di verità

Madri alla ricerca di verità

Mondo/ Desaparecidos in Uruguay - I desaparecidos nelle carceri clandestine del regime militare sono oltre duecento. Oggi il nuovo governo di centro sinistra cerca di far luce sulla loro sorte

Angelucci Nadia Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2005

Qualcuno ha teso dei fili tra gli alberi a Piazza Cagancha, a Montevideo, e a quei fili ha appeso delle foto. La gente passando si ferma a guardare quei volti in bianco e nero che sembrano rivolgere lo sguardo da un tempo lontanissimo. Sono giovani uomini e giovani donne; sono scomparsi durante la dittatura militare del 1973/85. I loro cari li stanno ancora cercando.
Quello che è successo in Sud America durante le dittature degli anni ’70 ha i tratti del genocidio. Per il calcolo e la freddezza con cui sono state sequestrate, torturate, uccise e fatte scomparire le persone, per il sentimento di paura che è stato trasmesso alla gente.
Nel libro pubblicato dall’Asociación Madres y familiares uruguayos detenidos desaparecidos una delle madri dice: “Già è finito il tempo in cui dicevamo –Vivi li avete presi, vivi li vogliamo . No. Vogliamo avere i loro resti. Vogliamo sapere: Come? Perché? Quando? Chi? Dove?”.
Una delle cose più odiose è stata la sottrazione dei bambini, piccoli o appena nati, ai militanti politici e la loro consegna, in gran parte dei casi, a famiglie che fiancheggiavano o erano direttamente coinvolte con il regime dittatoriale . In questo modo i repressori hanno ottenuto di distruggere tre generazioni: quella delle persone che sono state uccise, quella dei loro genitori che hanno utilizzato tutta la loro vita per cercarli e quella di questi loro figli che stanno vivendo nella menzogna una vita che non sarebbe dovuta essere la loro e quelli che sono stati ritrovati hanno avuto un dilaniante conflitto di identità.
Il poeta argentino Juan Gelman cerca sua nuora, Maria Claudia Garcia. Una ragazza di 19 anni, arrestata in avanzato stato di gravidanza, che, secondo quanto risulta dalla documentazione raccolta, ha partorito una bambina ed è stata uccisa; la bambina fu consegnata ad un commissario di polizia uruguayano e a sua moglie; Gelman l’ha ritrovata dopo oltre 20 anni di ricerche. Insieme stanno cercando il luogo in cui sono seppelliti i resti di Maria Claudia.
Cerca, Luz Ibarburu, suo figlio Juan Pablo Recagno, detto “El Colorado” per i suoi capelli rossi, scomparso a Buenos Aires, dove si era rifugiato per sfuggire alla dittatura uruguayana, il 2 ottobre 1976, all’interno di un operativo del Plan Condor .
“Sì, è stata una vicenda orribile – racconta Luz - che ha coinvolto totalmente le nostre vite. Per quanto riguarda i bambini, che sono stati trattati come un vero e proprio bottino di guerra, la situazione è, se si vuole, ancora più difficile. Per i casi che conosco non penso che sia possibile, se non eccezionalmente, che possano ricostruire le loro vite, tornare alla normalità. Se ci pensi, la vicenda dei desaparecidos finirà quando saranno ritrovati i loro resti; invece la vita dei loro figli sarà segnata per sempre”.
Luz è una delle fondatrici della “Asociación Madres y familiares uruguayos detenidos desaparecidos”. Ha dedicato gli ultimi 30 anni della sua vita a cercare Juan Pablo. Ecco la testimonianza che ha reso a Noidonne

Avete fiducia nelle ultime dichiarazioni dei militari?
Noi, come Associazione, abbiamo molte riserve. Io sono sicura che i veri colpevoli, gli esecutori non parleranno. Solo qualcuno che è stato implicato marginalmente potrebbe dire qualcosa. Del resto il risultato è sotto gli occhi di tutti. Hanno indicato dei luoghi, vari luoghi e non si trova nulla. L’altra cosa che ci ferisce e non ci fa avere fiducia è lo stillicidio con cui vengono date le informazioni.

Prima che cominciassero gli scavi nelle caserme una delegazione di Familiari di desaparecidos, tra cui lei, ha avuto la possibilità di percorrere a piedi i posti in cui, si suppone, siano sepolti i vostri figli. Che sensazione ha avuto?
E’ stata una cosa simbolica molto importante e devo dire che tra di noi c’era una forte aspettativa. Abbiamo fiducia negli antropologi argentini incaricati dal Governo di portare avanti i lavori. Abbiamo fiducia in tutta l’equipe che sta svolgendo i lavori, ma non è questo il punto: abbiamo fiducia in chi scava ma non in chi ha seppellito.

E nel Presidente? Avete fiducia nel Presidente della Repubblica?
Lo conosciamo da molto tempo. Ci ha aiutato in varie occasioni e partecipa da anni alle attività dell’Associazione. Lui ci ha sempre detto “Sarò con voi fino a dove volete arrivare”.

Come è nata la vostra Associazione?
All’inizio io e mio marito non avevamo idea di che cosa significasse la parola desaparecido. Pensavamo che si trattasse di un lungo periodo di incomunicazione. Quando mio figlio era stato arrestato, in Uruguay, avevamo passato 7 mesi senza avere notizie. Dopo la scomparsa a Buenos Aires il suo nome apparve, insieme a quello della sua compagna, in una lista di desaparecidos. A partire da quel momento abbiamo capito: abbiamo vissuto la disperazione di non lasciare la casa vuota nel caso ci fosse qualche telefonata; la speranza e lo sconforto di ogni giorno; l’impotenza; un’angoscia di morte. Poi il Presidente del Centro di Studi Legali e Sociali di Buenos Aires mi indirizzò all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: lì mi diedero il nome di altre due madri, le contattai e così incominciammo. Ci riunivamo a casa mia perché ero l’unica ad avere una macchina da scrivere ed ero anche l’unica a guidare. All’inizio scrivevamo lettere e raccoglievamo firme, poi abbiamo cominciato ad uscire ma in Uruguay il tema era totalmente sconosciuto. Prendendo come esempio le Madri argentine ci riunivamo in piazza ma eravamo così poche che ispiravamo commiserazione ed era facile per la polizia bloccarci. Una volta siamo andate tutte insieme in una chiesa portando dei cartelli con le foto dei nostri cari scomparsi e la gente credeva che fossero santi portati in processione. Questo prova la totale ignoranza su quanto stava succedendo nel Paese.

Che cosa significa perdere in questo modo una persona cara?
E’ molto difficile; è la disperazione, non si sa cosa fare. Mi hanno chiesto come faccio a vivere; la verità è che qualsiasi ferita non è la stessa dopo tanti anni. La cosa peggiore è l’incertezza ma c’è un momento in cui arrivi alla convinzione che tuo figlio è morto.

E’ difficile arrivare a questa convinzione in una situazione in cui non sai il giorno della sua morte, non vedi il suo corpo, non sai dove è seppellito.
E’ molto duro. Io ci sono arrivata abbastanza rapidamente ma ci sono persone che hanno cercato per anni negli ospedali, nei manicomi, anche dopo la fine della dittatura, negandosi ad accettare di mettere un punto per dire fine. Quando una compagna dei nostri figli, Sara Mendez a cui era stato sequestrato dai militari suo figlio Simon di 20 giorni, uscì dal carcere noi le domandammo se secondo lei i nostri figli erano tenuti nascosti in Argentina o Uruguay, lei rispose “In nessuno dei due posti!”. Fu un colpo durissimo.

In un libro ho letto una cosa che mi ha colpito molto. Il dolore di una delle madri che si colpevolizzava per non aver fatto abbastanza, o non aver fatto tutto quello che poteva, per ritrovare i ragazzi.
Io penso che noi abbiamo fatto tutto il possibile. Piuttosto credo che ognuno di noi si sia chiesto se nel nostro modo di educarli gli abbiamo trasmesso qualcosa che poi li ha portati a finire così. La nostra, ad esempio, era una famiglia di sinistra ma non avevamo una militanza forte; eravamo invece molto cattolici, ora io non lo sono più, e abbiamo instillato a Juan Pablo l’amore incondizionato per il nostro prossimo e l’importanza di usare la nostra vita per qualcosa di grande. Lui ha incorporato questi principi e li ha elaborati a suo modo. Tutti noi siamo figli dell’educazione che riceviamo, è difficile dire fino a che punto influiscono le varie cose.

Prova un sentimento di vendetta verso le persone che hanno ucciso suo figlio?
No. Io voglio che cose come questa non succedano mai più; per questo mi appello alla legge. Sento, a questo punto, che questo è ciò che devo fare. E’ quello che sento ora; non so se attraverso il tempo abbia avuto sentimenti diversi.

*Femminista e volontaria cooperante, ha viaggiato in molti paesi del Sud America lavorando con diverse ONG in progetti di cooperazione a favore di donne e con Istituti di cultura e università

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