Mercoledi, 15/02/2023 - Quando Mina e Piergiorgio si incontrano a Roma negli anni Settanta lui è già malato: trascina un po’ le gambe e aspetta di morire. «Non mi posso innamorare» è convinto. Eppure Mina risponde: «Ma non possiamo intanto che aspettiamo divertirci un po’?»
“Sei stato felice?” è la lunga storia d’amore di Mina e Piergiorgio (Piero) Welby. E molto di più. È il podcast scritto e condotto da Chiara Lalli – scrittrice e bioeticista -, prodotto da Miyagi entertainment in collaborazione con l’Associazione Luca Coscioni.
Ascoltare il racconto di Mina è a dir poco emozionante. Da quel primo incontro passano alcuni anni e tante lettere; non c’erano i cellulari, e i messaggi erano solo quelli cartacei, pensati, riletti e magari accompagnati da un bacio o da una goccia di profumo. Un altro mondo. Poi però amarsi da lontano non è più abbastanza. E allora Mina si trasferisce a Roma.
E così la vita si arricchisce di fotografie, dipinti, violette per il bouquet, risate. «Noi combattiamo insieme» dice Mina. «Una simbiosi» la definisce la sorella di Piergiorgio.
Ma un fantasma li accompagna. La distrofia muscolare di Piergiorgio non può non avanzare. A diciotto anni già sapeva che quella sarebbe stata la sua morte. Pian piano i muscoli si spengono, il respiro diminuisce.
Piergiorgio chiede una promessa alla sua amata Mina: «Se dovesse capitare che vedi che ho difficoltà respiratorie, promettimi di non portarmi in ospedale.» «Ma certo te lo prometto» risponde lei. Piergiorgio non vuole ritrovarsi imprigionato in un letto, attaccato ad un respiratore, privato della libertà di muoversi, di parlare, privato di ogni autonomia. Vuole vivere, e vuole farlo a modo suo.
«Lasciami andare.» Amami così tanto da lasciarmi andare.
Se Mina avesse mantenuto quella promessa ora non sarebbe qui a raccontarci la sua storia. La loro storia.
Ma non ce la fa. «Sono stata egoista.»
«Avevi promesso.»
«Scusa se non ti ho fatto morire. Se ti ho tenuto qui con me.»
Eppure dopo quella corsa in ospedale, Mina dice al medico che lo ha intubato “per salvargli la vita”: «Lui non voleva essere salvato. Lui ha la distrofia muscolare, non vorrebbe continuare a vivere.» Il medico non risponde. Probabilmente la sua supponenza gli impedisce perfino di comprendere la profondità di ciò che Mina gli sta dicendo.
È il 1997, e da lì – da quell’invasione della tecnologia medica sul corpo di Piergiorgio – inizia una lunga condanna che durerà fino al dicembre 2006. Una condanna che priva Piergiorgio del suo corpo e della sua libertà.
Mina cerca in continuazione nuove cose da fare per non annoiarsi. La scrittura con il touchpad del nuovo computer, i libri scannerizzati, il diritto di voto esercitato grazie agli attivisti radicali che lo trasportano dato che la legge italiana non consente ancora il voto ai malati intrasportabili.
Ma ormai si tratta solo di sopravvivere. Piergiorgio vorrebbe vivere, e questo non è più possibile.
E allora basta.
A settembre del 2006 Piergiorgio scrive al presidente della Repubblica Napolitano, chiedendo di esercitare non il suo diritto a morire bensì il suo diritto a vivere nel modo in cui lui stesso desidera.
Perché è questo il punto: «Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Morire mi fa orrore. Purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche.»
È questo il punto: non si tratta di come morire, ma di come vivere! Perché non c’è più niente di naturalmente vitale nel tenere attive funzioni biologiche tramite macchinari e farmaci.
Il punto è che ciò che chiedeva Piergiorgio non aveva nulla di illegale, perché la Costituzione italiana garantisce la libertà di rifiutare qualunque trattamento sanitario, in qualunque condizione e anche se già iniziato. Il punto è che lo Stato italiano ha negato ad un suo cittadino – e a chi come lui viveva recluso nel proprio corpo – l’esercizio di un diritto costituzionale. Piergiorgio aspetta per ottantotto giorni. Finché un altro cittadino - il dottor Mario Riccio - mette a rischio la propria libertà per restituire la libertà a Piergiorgio.
Sono trascorsi sedici anni da quel 20 dicembre 2006, e oggi Mina è una signora di ottantasei anni. La sua casa è rimasta la stessa; manca solo nella stanza di Piergiorgio l’enorme letto ortopedico. In questi sedici anni è per quel diritto alla libertà, per quel diritto inviolabile a vivere la propria vita, che Mina ha continuato a lottare anche dopo aver salutato con l’ultimo bacio il suo Piero.
E in questi sedici anni ne sono stati conquistati di diritti. Ma sempre a prezzo di grande fatica.
All’inizio del 2018 è entrata in vigore la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento, che ha riconosciuto come indiscutibile il diritto all’interruzione di qualsiasi terapia sanitaria. Era un diritto già indiscutibile, lo dice la Costituzione; ma si sa che per far capire certe cose è necessario urlarle tante volte e con tanti mezzi diversi. È una legge di elementare civiltà, che tutela una elementare libertà, paradossalmente resa meno elementare dal progresso tecnologico; eppure l’associazione Luca Coscioni rende noto che solo lo 0,4% dei cittadini e delle cittadine italiane ha depositato in Comune le proprie disposizioni anticipate, altrimenti chiamate testamento biologico. Lo 0,4%, pari a 186.235 DAT, una ogni 215 abitanti. Io che scrivo queste righe faccio fieramente parte di quello 0,4%, non solo perché tendo ad affezionarmi ai lati minoritari delle classifiche, ma soprattutto perché come Piergiorgio, come Fabiano Antoniani e come l’indimenticabile Eluana Englaro, tengo molto alla mia libertà. Non tenete voi alla vostra?
Ignoranza e indifferenza, come osserva Mario Riccio, sono i nostri peggiori mali. Molti e molte ignorano perfino l’esistenza di questa legge o cosa è necessario fare per presentare le DAT. Si tratta di qualcosa di semplicissimo che è ben spiegato – oltre che sul sito internet dell’Associazione Luca Coscioni – sui siti di moltissimi Comuni. Molti più di quanti informino dell’epocale cambiamento che c’è stato nell’attribuzione del nostro cognome. Indifferenza, l’altro male, è dire che tanto queste cose riguardano gli altri, quando invece la libertà è strettamente personale, e nessuno può prevedere cosa accadrà domani.
Nel 2019 la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’articolo del nostro codice penale fascista che punisce l’aiuto al suicidio perché incompatibile con il diritto inviolabile alla libertà (in determinate condizioni). È stata la disobbedienza civile di un altro cittadino – Marco Cappato – a provocare quella sentenza accompagnando in Svizzera a suicidarsi Fabiano Antoniani e autodenunciandosi in uno Stato che consente tutto a patto che si faccia in silenzio, ma che non ammette protagonismi. Come quello di Piergiorgio, come quello di Beppino Englaro. Se Mario Riccio aveva rispettato la legge facendo il proprio lavoro e rispondendo alla richiesta di Welby, Cappato ha disobbedito alla legge nella convinzione che quella legge non fosse né giusta né accettabile in base alla nostra Costituzione.
E non è ancora abbastanza. Dall’anno scorso Marco Cappato e poi la stessa Chiara Lalli, Felicetta Maltese, Virginia Fiume, hanno accompagnato in Svizzera altre persone malate ma non nelle condizioni definite dalla Corte costituzionale, e si sono ancora autodenunciate in Italia, attivando nuovi procedimenti penali che vedremo che esito avranno.
La libertà di poter scegliere. È per questo che Piergiorgio e Mina hanno deciso di rendere pubblica e raccontare la loro storia. È per questo che persone coraggiose come Marco Cappato continuano a mettere a rischio la propria libertà, nonostante l’indifferenza e l’ignoranza dei più.
Il podcast di Chiara Lalli – oltre a Marco Cappato e Mario Riccio - ospita anche altri/e familiari che hanno vissuto la malattia di una persona amata - Valeria Imbrogno e Andrea Ridolfi -, e anche chi vive la malattia sulla propria pelle – Laura Santi. È dalle loro parole che si comprende come curare non significa solo e necessariamente guarire, bensì anche e soprattutto prendersi cura dell’altro, della persona nella sua interezza, del suo spirito prima di tutto.
Mina e Piero hanno avuto una vita complice, fino alla fine.
«Sono stato felice. E tu?»
A questo link il podcast: https://www.associazionelucacoscioni.it/sei-stato-felice-podcast
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