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Ma io sono una casalinga?

Ma io sono una casalinga?

Divagazioni sul tema e sulla sostanza della parola e delle attività della casalinga, alla luce del Fondo per la formazione proposto dalla Ministra Bonetti

Lunedi, 24/08/2020 - Da quando la ministra Bonetti ha lanciato nel decreto d’agosto il  “Fondo per la formazione personale delle casalinghe “con una dotazione di 3 milioni di euro, la parola casalinga, il suo significato, la specifica circa a chi vada attribuita tale qualifica e condizione, ha ripreso uno spessore che sa di antico, perché mai davvero chiarito.
E così, tra consensi e polemiche, il tema si è riproposto all’attenzione dei media, ovviamente soprattutto femminili. E forse varrebbe la pena di non rimuoverlo per usare al meglio il provvedimento, che ormai è realtà.
Premetto che, personalmente, ritengo che al di là delle polemiche e opinioni tra favorevoli e contrari non sia scandalosa una misura che comunque, ben articolata nelle norme attuative, potrebbe rispondere a esigenze formative di molte donne che per obbligo, necessità o scelta si occupano dei lavori di casa, di cura e non solo. Esigenze che, seppur con superficialità del pensiero, viene spontaneo possano trovare in prima posizione una formazione utile nella scelta di incrementare l’abilità informatica, risolvendo problemi da casa. Quella informatica è una conoscenza che, se praticata, può permettere di snellire un'infinità d’impegni, quelli che i libri di economia domestica (materia che si studiava a scuola non troppi anni fa) avrebbero definito "capacità amministrative" e io aggiungo "relazionali". Si tratta di innumerevoli adempimenti che vanno dai conti della gestione famigliare alla banca, dalla posta alla sanità fino al rapporto con istituzioni varie etc. E ancora, sottolineando concetti letti e condivisi, si tratterebbe certamente di una formazione che può preparare per favorire un'inclusione o re-inclusione lavorativa; sembrerebbe questo un convincente ulteriore orizzonte di utilizzo.
In sostanza sembra ci siano due possibili distinte direzioni e filoni da seguire in termini formativi. Il primo riguardante il rafforzamento, la qualificazione e l’accompagnamento per agevolare il lavoro casalingo e un secondo indirizzo che punti ad aprire possibili strumenti o aiuti che facilitino la giusta aspirazione di un reinserimento o inserimento del lavoro extra-domestico.
Fatte queste brevi considerazioni, che considero dovute visto il decreto da cui tutto prende spunto per i miei pensieri, mi pare che l’iniziativa della ministra Bonetti, nella scelta della definizione del provvedimento che ha circoscritto ad una specifica condizione di lavoro -definita dal termine casalinga, mentre molte altre parole potevano essere scelte - e tenendo conto di quanto pesino i concetti dietro e dentro i termini del linguaggio e la loro storia ”politica“ (spesso mai risolta compiutamente nel suo significato, come nello specifico), ha aperto, per non dire scatenato, un dibattito che stimola a riprendere il tema e le sue valenze simboliche e oggettive. Dibattito che, in attesa dei decreti attuativi,  forse non andrebbe rimosso o demonizzato.
Ed è allora, all’interno di questo ragionamento che come mi capita spesso mi viene spontaneo, riparto da me domandandomi ma io sono una casalinga ? E se lo sono, a quale categoria appartengo ?
Nel tentativo di darmi qualche risposta, la prima che la parola casalinga richiama, senza se né ma, sono i lavori di casa. E io quelli li faccio e li ho sempre fatti. E tanti sono stati i lavori di cura che posso dire che non mi siano mancati.
Tutto questo l'ho gestito mentre, parallelamente, stavo lavorando fuori casa, tanto da vivere oggi garantita dalla pensione frutto di quell’impegno. E qui mi fermo nuovamente a pensare se abbia mai trovato una risposta esauriente la domanda se fare la casalinga sia definibile come tale, appunto: un lavoro seppur non pagato ?
Forse una volta per tutte penso che dovremmo dire che non ci sono dubbi. Non a caso se si ha la fortuna di potere usufruire di una collaboratrice domestica, o di una baby sitter, o di una badante o tante altre figure in cui si “ spezzetta” a pagamento il lavoro casalingo o domestico - come veniva definito nel passato prossimo - viene retribuito e riconosciuto.
Forse che quello a pagamento è immediatamente definito lavoro perchè esonerato o sgomberato dall’ansia, dalle preoccupazioni e da tutte quelle emozioni che lo accompagnano se è per la tua famiglia, casa, ambiente, quindi se è intrecciato all’affettività ? E ancora sulla discriminante se scelto o costretto, con il differente stato d’animo che questo comporta ?
Sappiamo tutte di ripetuti, storici e forse eterni interrogativi che s’intrecciano nel tempo da sempre al ruolo femminile nella famiglia, codificato per secoli in modo subordinato al potere maschile, schematico e cristallizzato, che continua a riproporsi costantemente nonostante i grandi cambiamenti avvenuti e conquistati che ci hanno portato a batterci e per molte, per tante, fortunatamente a “emanciparsi” e a misurarsi nel lavoro fuori dalle mura domestiche.
Un riproporsi della chiamata a casa delle donne subdola e strisciante che un momento particolare come quello del coronavirus con tutte le condizionalità, novità in itinere e la notevole preoccupazione occupazionale, può divenire realisticamente una minaccia riportando alla ribalta la pressione oggettiva di ricacciare le donne a casa .. per risolvere molti problemi e risparmi sociali. Questo in uno scenario che imamgina un ordine sociale fondato sul ruolo della famiglia ovvero della donna come punto di partenza (per dirla in termini superficiali).
Ed è dunque proprio quanto sta accadendo che potrebbe rendere interessante, e forse utile,  tornare sul tema che la parola casalinga sintetizza, impastando implicazioni affettive, di responsabilità e differenze di età, condizioni oggettive e soggettive che possono fare la differenza, anzi che la fanno sicuramente nell’affrontare il tema a vantaggio delle donne tutte.
Vivere la condizione di casalinga come limitazione coatta ad esprimersi in altri ambiti della società è una vera violenza. Uno stato ben diverso se quella condizione è vissuta come una scelta.
Limitare la categoria di casalinga ai soli lavori di casa, interpretarla come cura,   trovo sarebbe interessante da riapprofondire, rivisitare aggiornando o cancellando persino il linguaggio sin dal vocabolario e dai modi di dire.
Un esempio interessante viene dall’aggettivo casalingo che comporta e qualifica nel suo uso il senso oltre al lavoro dell’accoglienza, del cibo, di comportamenti (calorosi e piacevoli), dei manufatti fatti in casa (non professionali, magari imperfetti pur se intrecciati di attenzione per il meglio, che ne garantiscono il plusvalore). E che dire di quel casalingo aggettivo qualificativo di uomini (padri o mariti o amici) che non amano troppo uscire e dedicarsi ad attività e relazioni esterne piuttosto che di attivi protagonisti dei lavori domestici, o di quella mitica espressione riferita alla ”casalinga di Voghera” che evoca profili femminili provinciali e senza ampi orizzonti.
Ma prima di terminare sento come doveroso un utile richiamo, che scaturisce dalle esperienze del mio lavoro nel mondo agricolo, anche in particolare con le donne, e che cito perché a me sembra sia un ulteriore spunto per riflettere sulla casalinga e il suo lavoro.
Il riferimento viene dal mondo contadino ma può estendersi e intendersi anche all’artigianato, al commercio e altri campi. 
Le contadine, in nome di quanto il loro lavoro famigliare (quindi casalingo) di sostegno al lavoro agricolo fosse importante, anzi decisivo, furono le mosche nocchiere nella conquista e approvazione dell’impresa familiare (art 230 bis) che fu inserita nel cosi detto “Nuovo diritto di famiglia"  approvato nel 1975. L’articolo che si estese al mondo dell’artigiano e del commercio riconosceva e riconosce pur in una situazione tanto cambiata diritto a mantenimento, utili, opinione nei cambiamenti aziendali ai famigliari partecipi ma che è noto volesse riconoscere, in primis il contributo femminile, senza dimenticare altri.
Fu un grande riconoscimento e conquista di dignità e parità, quando il lavoro che faceva capo alla casa aveva nelle imprese un enorme valore aziendale e ottenne un riconoscimento davvero ante litteram.
Ho voluto ricordare questo punto per motivare ulteriormente la convinzione che il tema della casalinga o della “casalinghitudine“ - dal romanzo di Clara Sereni, come mi ha suggerito un'amica - andrebbe ripreso e ridiscusso alla luce dell’oggi,  vista la messa in campo che, comunque sia, è avvenuta con il decreto della ministra Bonetti e, pur con il massimo rispetto, non lasciando che le uniche a discuterne siano le organizzazioni delle casalinghe.
Quanto a me, tornando alla domanda personale, non so definirmi e dare una risposta. Certo pur se da casalinga a intermittenza, nella mia vita sono sicura di esserlo stata, casalinga, e di esserlo tuttora. Ma ancora come tante, sono la dimostrazione, o meglio offro lo spunto, per pensare che la “materia“ forse è interessante sia ridiscussa nella realtà che viviamo oggi dandogli un'adeguata lettura e interpretazione.
Paola Ortensi, 23.08.2020   -    foto dall'Archivio storico di NOIDONNE


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