Le migliaia di anonimi che sono stati in prima linea sono dei veri e propri reduci, a ciascuno va riconoscenza e comprensione. Tornare alla vita di tutti i giorni non è sempre semplice
Lunedi, 15/06/2020 - Si chiamano Agnese Monica Irene Rita Marisa Giovanna . Le ho conosciute proprio adesso, le infermiere che sono state in trincea, ora che sono stata ospedalizzata per un paio di settimane in un ospedale che aveva appena dimesso il suo ultimo paziente Covid.
Se le incontrassi, non le riconoscerei. Si muovono frusciando, solo apparentemente goffe.
Applicano con strenua precisione il protocollo pandemia, che è tutto un “metti un secondo paio di guanti, un secondo grembiule sopra all’uniforme, intrappola le scarpe in sacchetti di plastica azzurra, entra. Sorridi come se niente fosse. Sulla soglia togliti il secondo paio di guanti, disinfetta il primo, togliti il secondo grembiule...”
Io fortunatamente ho una volgare polmonite da pneumococco, ma loro applicano lo stesso principio per proteggere me dalla possibile trasmissione di un virus pericoloso come il Covid.
Di loro conosco solo gli occhi e la voce. La storia.
A., separata, tre figli e una madre anziana:
“Ho scelto di fare l’infermiera, non la cambierei per niente al mondo anche se, con il Covid, i figli sono passati in secondo piano. Sono sola, un po’ mia madre, ma cosa vuoi, non è più giovane. Paura tanta, quando esci dal reparto infettivi e vai a casa. Non per te, naturalmente. Allora vai in doccia, disinfetti, fai pipi’ disinfetti, ti spazzoli i capelli disinfetti. Mangi sul tavolo della cucina, disinfetti. Lavi le tue lenzuola da sole, si sa mai. Ho fatto due mesi senza riposi, dopo ho detto alla caposala che, se non mi dava almeno un giorno, mi sarei ammalata anch’io. Ora forse posso avere una settimana di ferie, non vedo l’ora. Scusa, non posso stare troppo, devo fare un ingresso. Se hai bisogno, chiama, non farti scrupolo”
Gli occhi brillano di uno sguardo dolce e stanco, si allontana frusciando.
R. è piccola e minuta, tanto che pare una bambina mascherata. Ha il fidanzato lontano, non lo vede da mesi. E uno sguardo acuto e intelligente.
“E’ infermiere anche lui, ci sentiamo quando possiamo. Dovevamo sposarci e mettere su casa qui. - alza le spalle in un gesto di impotenza - Adesso che la piena è passata, non credere che sia finita. Quando un torrente straripa e poi si ritira, lascia tanti danni. Cosi’ solo in regione abbiamo ottantamila prestazioni in ritardo, gente che ha bisogno di cure. Oltre l’ordinario, quelli di oggi, come te. Il numero di prestazioni che abbiamo sospeso è inverosimile, chissà se recuperiamo entro l’anno. Una sola cosa vorrei: qualche giorno di riposo, ma subito no, lo so anch’io.”
B. non è più giovane, ha lo sguardo di chi ha visto altre emergenze che ogni tanto si perde lontano. Chissà che cosa pensa.
“Ho perso mio marito a Catanzaro. Io ero qui, lascia perdere. Pero’ lavorare mi ha impedito di pensare. Curando voi, curavo lui. No, nemmeno da infermiera ho potuto essere tenuta al corrente. Ognuno nel suo pianeta, nel suo contagio. Parliamo d’altro. No, non voglio fermarmi adesso, crollerei. Preferisco rallentare piano piano, far scendere l’adrenalina perché ho passato due mesi a mille all’ora e se stoppo di colpo mi spacco. Scusa, ho da fare, stanno chiamando”
So che non è vero, ma non insisto.
Naturalmente ci sono anche Alessio, Franco, Sandro. Ma sono la minoranza. Sono capaci ed efficienti precisamente come le colleghe. Anche loro hanno storie di famiglie lontane e sperano di tornarci, un giorno. Uno invece si è innamorato dell’Emilia e della gente di qua: rimane.
Abbiamo dunque un tesoro umano da conservare con cura e da coltivare con attenzione, preservandolo dal logoramento. Facciamolo, perché la sua perdita danneggerebbe ciascuno di noi.
Facciamolo adesso, non in un futuro incerto e imprecisato. Dopo, quando lamenteremmo la sua perdita, sarebbe troppo tardi.
Da cittadina parlo alla Regione Emilia Romagna, mio primo interlocutore.
A ogni altro cittadino che, da umano imperfetto, magari un giorno dovrà passare in revisione.
Facciamolo ora perché dopo è già mai.
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