Nucleare/ Chernobyl - Bambini meno sani e con più malattie croniche. Dopo 25 anni ancora l'effetto dell'incidente
Zomparelli Ivana Lunedi, 30/05/2011 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2011
Nessuno avrebbe potuto immaginare che il venticinquesimo anniversario della catastrofe di Chernobyl in Ucraina (26 aprile 1986), sarebbe coinciso con un disastro analogo, se non peggiore, in Giappone (11 marzo 2011).
Invece il terribile è di nuovo accaduto. Le cifre complessive del disastro di Chernobyl vengono discusse tutt’oggi a vari livelli: dai danni alla salute e all'ambiente al bilancio scientifico delle vittime. Le stime fornite dal rapporto del Chernobyl Forum (promosso dall’ONU a Vienna nel 2003, nel 2004 e nel 2005), risultano meno drammatiche di quelle percepite dalla collettività. Ma sono state radicalmente contestate dal gruppo del Partito Verde del Parlamento europeo, che ha stilato un rapporto alternativo, e da altre formazioni antinucleariste che parlano di cifre molto diverse. Il rapporto di Greenpeace arriva a presentare addirittura la cifra di 6 milioni di morti per tumore, fra tutta la popolazione globale mondiale, direttamente imputabili a Chernobyl.
Venticinque anni fa la Bielorussia fu una delle zone più pesantemente colpita dalle radiazioni.
Ma oggi esiste ancora il problema Chernobyl? La domanda, è anche il titolo di un Congresso internazionale dedicato alla Bielorussia, organizzato a Roma dall’Associazione di Volontariato Puer nel 1997.
In quel contesto, Serghhiey Svonko (Ministro Consigliere della Repubblica Bielorussa in Italia) rispondeva così: “Si può dire, purtroppo con assoluta sicurezza, che il problema per la Bielorussia esiste perché il 70% delle scorie radioattive sono cadute sul territorio della Bielorussia e in questo 70% sono compresi metalli pesanti, il cui periodo di decadimento dura centinaia di anni. Esiste perché un terzo del budget statale viene investito ogni anno per superare le conseguenze dell’incidente di Chernobyl. Esiste perché cresce la quantità di svariate malattie provocate dall’incidente, a causa delle quali soffre, in primo luogo, il futuro del popolo bielorusso: i nostri bambini”.
Nel territorio contaminato della Bielorussia vivevano 2.200.000 persone (circa il 20% della popolazione, tra le quali circa 600.000 bambini e adolescenti, ed è un fatto come scriveva Vladislav A. Ostapenko (direttore dell’Istituto di Medicina Radioattiva di Mogilev), che nel corso degli anni è diminuita in termini assoluti la quantità di bambini sani ed è cresciuta la quantità di bambini affetti da malattie croniche di diversi organi e sistemi. Anche perché come hanno messo in rilievo Nicola Marinosci e Claudio Fontana (Servizio Attività Sanitarie della Croce Rossa Italiana) la popolazione e specialmente i bambini hanno continuato a ricevere un aumento di sostanze tossiche per l’ingestione di prodotti agricoli ed animali contaminati, coltivati e allevati localmente, e dall’uso di acque contaminate attraverso la catena alimentare.
“Chernobyl per la Bielorussia è una disgrazia e un dolore, ma il dolore diminuisce e la disgrazia si sopporta più facilmente se gli altri la condividono con noi. Il popolo italiano più di ogni altro si è preso a cuore la nostra disgrazia”, sono ancora parole di Serghiey Svonko.
Quali sono state le modalità e i dati concreti di questa condivisione da parte nostra lo chiediamo a Sergio Di Cicco, presidente dell’Associazione Puer, nata a Roma agli inizi degli anni ’90, dalla collaborazione di alcuni parroci e di un gruppo di laici, il cui primo presidente è stato Don di Liegro. “L’idea è stata quella di portare i bambini in Italia a scopo di risanamento, perché era stato provato scientificamente che dopo un minimo di quaranta giorni di permanenza su un suolo non radioattivo e mangiando cibo non contaminato, possibilmente anche respirando iodio nelle zone di mare, riuscivano a smaltire una quantità notevole di cesio. Quindi abbiamo cominciato a cercare in tutta Italia famiglie, ma anche donne single, disposte ad accoglierli (mentre non abbiamo ritenuto di estendere questa possibilità agli uomini, anche perché il Comitato Minori non avrebbe rilasciato l’ autorizzazione)”.
Qual è stata la disponibilità all’accoglienza?
In quasi vent’anni la nostra Associazione ha fatto venire in Italia circa settantamila bambini; tanti altri sono venuti con altre Associazioni. Noi curiamo con attenzione gli abbinamenti e poi offriamo il nostro sostegno, ma è molto importante che l’accoglienza non sia vista come qualcosa che non è, e non può essere, per esempio come una scappatoia per l’adozione. Da questi abbinamenti, pur con qualche inevitabile caso problematico, sono nate storie importanti, rapporti e amicizie solide, che durano nel tempo. E può addirittura capitare che a mandare i figli, siano i primi bambini che sono arrivati in Italia.
Un fenomeno ad andamento costante?
Negli ultimi tempi l’attenzione è un po’ calata, le radiazioni non si vedono quindi si tende a dimenticare, anche se noi sappiamo per esperienza diretta, attraverso la collaborazione con diversi istituti pediatrici, soprattutto con i reparti oncologici, che i bambini continuano ad ammalarsi. Il problema principale è quello delle patologie della tiroide.
“Per i genitori, soprattutto per le mamme bielorusse che mandano i loro figli in Italia, presso famiglie sconosciute, la motivazione forte è quella del risanamento. C’è molta attesa che il soggiorno qui comporti benefici concreti per la loro salute", argomenta Oxana Varlamava, una giovane donna bielorussa arrivata per la prima volta quattordici anni fa, come assistente di un gruppo di bambini, che ora vive con la famiglia, e collabora con la Puer.
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