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Lo straordinario talento di Amy Winehouse raccontato in un film

Lo straordinario talento di Amy Winehouse raccontato in un film

Candidato agli Oscar come miglior documentario, il film sulla cantante londinese "Amy. The Girl Behind the Name" di Asif Kapadia è un emozionante ricordo della Winehouse prima, durante e dopo l'ascesa.

Giovedi, 28/01/2016 -
“They tried to make me go to rehab but I said 'no, no, no'”. Chi non ha canticchiato almeno una volta il singolo “Rehab” che ha reso Amy Winehouse una star di livello planetario? Quello che forse molti non conoscono è quale sia stata la genesi di quei versi autobiografici. È il 2005, l’anno in cui Amy incontra Blake Fielder-Civil, futuro marito e grande amore. Insieme si drogano e bevono moltissimo, tanto da mettere in allarme i produttori discografici e gli amici della cantante che vendendola sempre più stremata dagli abusi, la spingono ad entrare in una clinica per disintossicarsi. E’ il padre, quel Mick Winehouse divenuto celebre negli ultimi anni di vita di Amy e ancora di più dopo la morte, a dire alla figlia che in fondo non è necessario.



Questo episodio, che rappresenta una sorta di spartiacque nella vita della cantante, è raccontato magistralmente insieme a tanti altri nel documentario “Amy – The Girl Behind the Name”, del regista Asif Kapadia, candidato agli Oscar come miglior documentario. Che vinca o no la statuetta dorata il prossimo 28 febbraio, Amy e il suo regista di premi ne hanno già conquistati molti, accompagnati da critiche entusiastiche in Gran Bretagna e altrove. 



Nonostante la famiglia della cantante, il padre in primis, non abbia risparmiato feroci critiche al film, c’è da credere che ad Amy sarebbe piaciuto rivedersi nei vecchi filmati degli amici che Kapadia mette insieme regalandoci un ritratto inedito, distante non poco dal personaggio sopra le righe che le cronache hanno disegnato per molto tempo. Una Amy, come suggerisce il titolo, che esisteva prima del suo nome da star, prima di quella fama da cui lei ammetteva di essere terrorizzata. “Se diventassi famosa, impazzirei”, confessa ai suoi diari e agli amici più intimi all’inizio della carriera. E’ sincera e spontanea nelle immagini che si susseguono sullo schermo questa ragazzina inglese tutta voce e occhi ammiccanti, capace di flirtare con l’obiettivo come solo le vere dive sanno fare. Un’artista con un talento fuori dal comune, che scriveva i testi e le melodie e interpretava in musica la sua vita non facile.



Un’infanzia e un’adolescenza segnate dall’abbandono del padre e dalla convivenza con una madre che non riesce a esercitare su di lei nessun controllo. Nel 2002 viene notata dal produttore delle Spice Girls, mentre lei, ancora giovanissima, si esibisce come solista in un’orchestra jazz a nord di Londra, dove era nata il 14 settembre 1983. Il debutto con il disco “Frank” le fa ottenere un po’ di successo, ma è con il secondo album che diventerà una vera star. Quasi in coincidenza con l’esplosione della fama mondiale, nel 2005 incontra l’uomo che le cambierà la vita, quel Blake Fielder-Civil, che nel documentario appare come un uomo dipendente dalla droga e totalmente incapace di sentimenti autentici. E’ lui che mette Amy su un sentiero buio da cui non uscirà mai più. Ma, a partire quel periodo fino alla morte, nessuno tra le persone che ha attorno sembra guardare oltre la maschera che la cantante indossa, insieme ai vestiti da pin-up e la cofana di capelli neri, quando sale sul palco. Nessuno prova a salvarla da se stessa e dall’incolpevole forza autodistruttiva che la animava. Forse perché tutti quanti, dalla famiglia ai produttori, la vedevano ormai come una macchina per fare soldi. L’alcol, le droghe, i fotografi impazziti, la stampa feroce, erano incidenti necessari per alimentare la fama e far crescere i guadagni.



Al contrario, il documentario emoziona proprio perché fa spazio alla persona Amy Winehouse dentro la quale sembrano convivere una bambina e un’artista navigata, accomunate solo dalla voglia di cantare per venire a patti con il dolore. Kapadia ci mette davanti una donna tormentata e fragile ma anche di grande talento, intelligenza e cuore, qualità umane che ha conservato intatte fino alla morte prematura e che hanno contribuito, insieme alla sua musica, alla creazione di un mito contemporaneo. Un’arista che amava il jazz, il soul e l’R&B, dalle straordinarie doti vocali e di interpretazione e che sapeva essere irriverente e ironica, senza prendersi troppo sul serio.



In una delle scene finali del film, chiacchiera con Tony Bennett e quella sarà una delle ultime performance di Amy prima di morire per arresto cardiaco nel suo appartamento a Candem Square il 23 luglio 2011, “prima che la vita le insegni a vivere”, per citare proprio Bennett. C'è da credere che chi si chiede ancora il perché di questo clamore attorno ad un’artista la cui fama è legata in fondo solo a una decina di canzoni, un repertorio ridotto rispetto a quello di altri artisti scomparsi prematuramente, troverà nel documentario più di una risposta.



Foto di Silvia Vaccaro, scattata a Londra nel quartiere di Brick Lane. 

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