Lunedi, 10/08/2020 - Lo spezzone, il racconto di Matilde Tortora
Il proiezionista sapeva che, dopo la visione del film, le due sorelle sarebbero salite su in cabina e gli avrebbero chiesto di dare loro uno spezzone di quel film che aveva appena proiettato o di altri e lui consentiva loro di prendere qualche esiguo ritaglio di pellicola che aveva fatto per aggiustare e incollare qualche strappo che s’era venuto a creare per le troppe proiezioni. Ritagli che stavano ammonticchiati per terra in un angolo, nello spazio esiguo della cabina.
Ma che non se ne facessero accorgere dal gestore e che nascondessero bene la refurtiva. Sicché le due sorelle si cacciavano in seno, sotto il golfino di lana, quei ritagli che ben stipati lì, procuravano loro dei tagli sottili, una ragnatela di impronte.
E, arrivate a casa, s’ingegnavano di visionare in controluce quei ritagli di pellicola, che a volte mostravano solo qualche pezzo di cielo o di radura e solo a volte il bel viso di qualche attore o di qualche attrice, che essi non si stancavano poi a lungo di riguardare come se fosse un intero film da potere vedere.
Il cielo era scuro come fosse notte e piovevano lapilli come se venisse giù acqua. Per giorni, dal 18 al 24 marzo 1944 questa insolita grandinata procurò danni a persone e paesi, inibì raccolti e produzioni agricole per anni, lasciò ben altre impronte.
Ancora anni dopo, noi bambini mandati a giocare sul terrazzo della casa, inciampavamo in quei piccoli sassi neri, che lì per terra avevano trovato dimora fissa e se pure non inciampavamo, pur ne eravamo sempre avvertiti e li sbirciavamo con la coda dell’occhio come aspettandoci delle fiamme in agguato.
Però per andare a giocare sull’ampio spazio del terrazzo, dovevano camminare in fila indiana, fare molta attenzione, costeggiare i labbri di uno squarcio che uno spezzone incendiario, caduto proprio lì, aveva procurato durante la guerra.
Era come l’occhio gigante di Polifemo, la cui orbita sventrata dall’astuzia di un uomo, lasciava vedere giù di sotto, dov’erano i magazzini della fabbrica del nonno e dove pure si lavorava l’intero giorno, potendosi sentire le voci delle operaie.
Il più temerario dei miei fratelli provava a volte a sporgersi, attirato da quelle voci o forse solamente dalla vertigine che il vuoto dà. Noi lo trattenevamo, tirandolo via dall’affacciarsi, temendo che poi ci sarebbe stato vietato di andare l’indomani a giocare in terrazzo.
Avevo poco più di otto anni, essendo la maggiore, ero quella che lo tratteneva con più forza e anche con maggiore spavento; poi approdati in terrazzo, ce ne dimenticavamo.
Al rientro, dovevamo di nuovo costeggiare con passi accorti i labbri di quello squarcio, che stava lì da anni e che nessuno aveva ancora provveduto a risanare.
Rientrati in casa, a volte sentivamo provenire dal salotto la voce di Giacomo Rondinella che veniva spesso a casa nostra, amico al Conservatorio S. Pietro a Maiella (fummo lungamente propensi a credere che era sempre questione di pietre) di uno zio che studiava piano e composizione.
Non è che lì, stando in salotto a chiacchierare o a prendere il caffè, Giacomo Rondinella cantasse, ma noi conoscevamo bene la sua voce dalla radio, dai dischi, dai film che aveva interpretato, e le sue belle canzoni.
Sentire la sua voce ci faceva certi che quello squarcio l’avrebbero riparato, quei labbri sarebbero stati ricuciti, cominciavamo a canticchiare qualche spezzone di una sua canzone, nel correre in cucina a chiedere che cosa c’era da mangiare, sbirciavamo dall’uscio semiaperto del salotto, quella presenza.
Anche se lo spezzone che ci veniva in mente era della canzone Malinconico Autunno, noi fummo certi allora che né lapilli, né spezzoni incendiari sarebbero più piovuti dal cielo e che saremmo stati in salvo.
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