L'Italia restituisca alla Convenzione Cedaw il suo giusto senso
Il Comitato Cedaw ha bacchettato l'Italia perchè non rispetta l'omonima Convenzione, considerata il più importante strumento internazionale in materia di diritti delle donne.
Venerdi, 29/09/2017 - La mobilitazione promossa dalla Cgil per il 30 settembre, la cui connotazione ideale è spiegata nell’appello “Avete tolto il senso alle parole”, offre l’occasione per individuare varie parole svuotate di senso, con particolare riferimento a quelle che riguardano la violenza di genere. Il passo successivo sarà quello di illustrare i motivi per i quali quelle parole non hanno più in Italia il loro vero significato. Così, ad esempio, per il termine Convenzione Cedaw (Convention on the Elimination of all forms of Discrimination Against Women), sull'eliminazione delle discriminazioni contro le donne, si possono evidenziare le note critiche avanzate all’Italia dal correlato Comitato, a seguito dell’analisi del Rapporto, a carattere quadriennale, presentatogli a Ginevra dal Governo lo scorso 4 luglio.
Questo organismo internazionale, che ha il compito di verificare lo stato di applicazione delle norme contenute nell’omonima Convenzione da parte degli Stati che l’anno ratificata, ha deciso per il nostro Paese che, invece di preparare un nuovo report per il 2021, debba rispondere tra due anni su vari punti critici evidenziati dal comitato stesso nel suo giudizio finale. Riferendosi, ad esempio, al “trattamento delle vittime di violenza di genere, nonché all'eliminazione della stereotipizzazione di genere, all'interno del sistema giudiziario”, il Comitato è preoccupato per “i costi e la durata delle procedure, l'assistenza giudiziaria insufficiente, i pregiudizi fra i sessi nell'ambito della giustizia e la mancanza di riparazione”.
Coerentemente suddetto organismo internazionale ha sollecitato le istituzioni preposte ad “assicurarsi che le forme di discriminazione intersecanti siano adeguatamente indirizzate dai tribunali, anche attraverso la formazione dei giudici e degli avvocati”. Il Comitato Cedaw ha altresì rilevato che “anche se le procedure non sono obbligatorie, i tribunali continuano a fare riferimento ad una risoluzione alternativa delle controversie per le vittime di violenza di genere, come la mediazione e la conciliazione, nonché all'uso emergente di meccanismi di giustizia restauratori per casi meno gravi di stalking”. Alla luce di questa situazione, quindi, teme che tali procedure giudiziarie “potrebbero essere estese anche ad altre forme di violenza di genere contro le donne”.
L’organismo internazionale, inoltre, è particolarmente impensierito dalla circostanza che le donne che vivono in Italia, “specialmente quelle appartenenti a gruppi svantaggiati, tra cui rurali, migranti, richiedenti asilo, rifugiati, sinti e camminanti nonché donne con disabilità, non siano a conoscenza dei loro diritti ai sensi della Convenzione e pertanto non dispongano delle informazioni necessarie per rivendicare tali diritti". Alla luce di queste considerazioni il Comitato Cedaw ha sollecitato a “ristabilire il Ministero delle Pari Opportunità, come meccanismo di alto livello capace di avviare, coordinare e attuare le politiche di uguaglianza di genere, per garantire una chiara focalizzazione sui diritti delle donne”, raccomandando allo Stato di aumentare le risorse assegnate al Dipartimento delle Pari Opportunità. Questa sollecitazione è nata dalla constatazione che “è stata data priorità al Dipartimento per le Politiche Familiari per la protezione della famiglia rispetto a quello preposto all'eliminazione della discriminazione contro le donne”.
Il Comitato, come valutazione ulteriore, ha rimesso allo Stato il compito di “accelerare l'adozione e l'effettiva attuazione di politiche di genere e di garantire che il mainstreaming di genere sia applicato coerentemente nella formulazione ed attuazione di tutte le leggi, regolamenti e programmi in tutti i Ministeri e le strutture governative decentrate”. L’organismo Cedaw ha chiesto altresì allo Stato di “rafforzare il coordinamento tra le varie componenti delle istituzioni nazionali, definendo chiaramente i loro mandati e le loro responsabilità rispetto ai diritti delle donne e svolgendo regolarmente il monitoraggio e la valutazione di tale coordinazione”.
Non dovremmo indubbiamente stare tranquilli se un organismo internazionale del genere bacchetta così il Governo e altre istituzioni pubbliche riguardo alle misure approntate al fine di eliminare le discriminazioni contro le donne nel nostro Paese. Fintanto che le critiche relative all’effettivo perseguimento di tale obiettivo provengano da chiunque si impegni a rendere l’Italia a misura dei bisogni, dei diritti e delle aspettative delle donne che ivi vivono, si potrebbe rimarcare che le critiche siano di parte. Ma la circostanza, che l’Italia sia stata censurata per la disapplicazione parziale della Cedaw proprio dall’istituzione internazionale preposta al suo controllo, la dice lunga su quale genere di impegno debba essere messo in campo dalle istituzioni preposte.
Rimettere in carreggiata il Paese, soprattutto per quel che riguarda una preliminare preoccupazione del Comitato, ossia che permanga in Italia una mancanza generale di consapevolezza sulla Convenzione e sul suo Protocollo generale e facoltativo, diventa quindi un imperativo categorico. Alle tante parole sulle donne a cui è stato tolto il senso, come recita l’appello della Cgil per la mobilitazione del 30 settembre, potrebbe aggiungersi anche la Convenzione Cedaw, per evidenziare la necessità di restituirne il senso e rispettarla nel suo giusto valore. Rispetto nei fatti, ossia nelle politiche di sua attuazione e nelle misure da conseguire per monitorare costantemente la sua applicazione. L’Italia ha ratificato questa convenzione nel 1985 e il Protocollo opzionale nel settembre 2000, impegnandosi non solo a conformare ad essa la sua produzione normativa ma “ad eliminare ogni discriminazione praticata da "persone, enti e organizzazioni di ogni tipo", nonché “a prendere ogni misura adeguata per modificare costumi e pratiche consuetudinarie discriminatorie”. Si recuperi la valenza di questa responsabilità in capo allo Stato, che ha convalidato tale convenzione, e conseguentemente ci si adoperi ad onorare quello che è considerato il più importante strumento internazionale, giuridicamente vincolante, in materia di diritti delle donne.
Lascia un Commento