Giovedi, 27/02/2014 - Ma come abbiamo fatto a non renderci conto che le parole che terminano in “o” al maschile finiscono in “a” al femminile? Questo è quello che è accaduto per molti ruoli professionali da sempre tanto imprigionati in figure maschili da non poter immaginare una donna in quel ruolo, nemmeno nella sua declinazione di genere.
Sappiamo benissimo le difficoltà delle donne ad inserirsi in settori altamente qualificati. Riusciamo a immaginare un’avvocata? E un’architetta? Oggi probabilmente sì, ma molto più difficilmente con la terminazione al femminile. Stesso discorso vale per la medica, la notaia o la magistrata. Oppure per la prefetta, la chirurga o l’arbitra. Come suonano male queste parole, no? Fino ad arrivare alla soldata, che ha scardinato anche l’immagine del ruolo della donna militare.
E il discorso è uguale per i ruoli politici che terminano in “o”. La ministra, la sindaca, la deputata…e ancor più difficile la “Segretaria” di partito o di sindacato, che tanto sa ancora di segretaria d’assistenza lavorativa. Per non parlare dell’assessora, forma femminile che lentamente, ma finalmente, si sta affermando.
Nessuno ha mai messo in dubbio la “maestra” o appunto la “segretaria”. L’impiegata o la contadina. La sarta o la cuoca. E ancora la spazzina o la bidella. Semplicemente perché per le donne è stato così difficile inserirsi in ruoli lavorativi più avanzati da nemmeno considerarne l’esigenza di un adeguamento del linguaggio.
Per questo abituarci ai plurali in “a”, con estrema naturalezza, significa riconoscere il ruolo delle donne e il relativo percorso storico di affermazione.
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