Linda Laura Sabbadini, ovvero l'ISTAT con occhi di donna - di Cecilia Dalla Negra
Auguri per il riconoscimento ricevuto per il lavoro e le competenze. Da oggi Linda Laura Sabbadini è Direttore del Dipartimento delle statistiche sociali e ambientali.
Venerdi, 16/09/2011 - Linda Laura Sabbadini, statistica e studiosa delle trasformazioni sociali, è Direttore centrale presso l’Istat. Fin dall’inizio degli anni ’90 ha operato un processo di rinnovamento radicale nel campo delle statistiche sociali, sperimentando un nuovo approccio, mettendo al centro i soggetti sociali in un’ottica di qualità della vita e progettando indagini di genere di importante rilevanza, estese poi a numerose categorie sociali. Il suo è stato uno studio della società che ha cercato di andare oltre la rigidità del dato economico e l’impostazione economico-centrica che per anni gli Istituti Nazionali di statistica avevano adottato, per dedicarsi a quei soggetti deboli che, nelle vecchie statistiche, non avevano voce. “Perché la statistica pubblica è un bene di tutti – spiega – e deve servire al paese. Tutti i cittadini devono esserne rappresentati”. Una lunga gavetta la sua, che attraverso concorsi pubblici , lavoro e passione l’ha portata a ricoprire uno dei ruoli più prestigiosi all’interno dell’Istituto. Dal 16 settembre è Direttore del Dipartimento delle statistiche sociali e ambientali, uno dei quattro dipartimenti in cui è organizzato l’Istituto di statistica, unica donna insieme ad altri tre uomini. Per farci raccontare la sua storia, e come il suo approccio abbia cambiato il panorama delle indagini statistiche, l’abbiamo incontrata nel suo ufficio romano.
Una carriera lunga e appassionante la sua, e alla fine un grande risultato. Come ci è arrivata?
Adorando il mio lavoro. Sono molto felice del traguardo che ho raggiunto, per l’alto livello di responsabilità ottenuto, e perché sono riuscita a sviluppare le tematiche e le statistiche che ritenevo più utili per il Paese. Posso dire di aver messo in atto le cose in cui credevo e a cui pensavo da quando sono entrata: sviluppare le statistiche sociali e di genere, dare voce e visibilità a tutti i soggetti sociali, invisibili nelle statistiche ufficiali. Quando sono entrata all’Istat, nel 1983, non ero neanche laureata: il concorso che ho vinto era per licenza media inferiore. Mentre lavoravo ho scelto di riprendere gli studi che avevo interrotto, perché non credevo nei ‘pezzi di carta’, così dicevo allora e mi sono laureata. Ho fatto molti anni di gavetta, prima e dopo l’ingresso in Istat, preziosissimi per me per il futuro lavoro di dirigente.Ho imparato molte cose dai miei colleghi con molta modestia E mentre imparavo, pensavo a come innovare il contenuto del mio lavoro, l’innovazione è sempre stata la mia passione. Ho la fortuna di essere arrivata a questo punto con tanto entusiasmo, motivazione e amando molto il mio lavoro, un privilegio non di tutti. All’inizio semplicemente sognavo ciò che si sarebbe potuto fare come Istat, poi i sogni si sono trasformati in obiettivi da perseguire, e poi in realtà. Certo, da sola non sarei arrivata fino a qui: sono circondata da persone molto competenti e che mettono passione nel lavoro, sono state fondamentali per me. E poi la famiglia mi ha aiutato molto. Ho un marito d’oro, che mi ha sempre sostenuto, come io sostengo lui. Siamo molto diversi, ma creativi tutti e due. Siamo interscambiabili nei ruoli familiari e questo è un altro grande privilegio. Ho due figlie che adoro. Sono sempre state decisamente la mia priorità. Non c’è riunione che tenga, squilla il telefono e io ci sono. Posso stare a New York, Ginevra o Lussemburgo, sono sempre presente, come se fossi a Roma . Certo è faticoso in un Paese come il nostro conciliare tutto. Ma bisogna sempre guardare avanti, come fanno tante donne come me e perseguire con ostinazione le cose in cui si crede, cercando di realizzarsi su tutti i fronti.
Nel suo ambito lei ha rivoluzionato il campo delle statistiche sociali attraverso l’approccio di genere, estendendolo poi a numerose categorie sociali. In cosa risiede l’importanza di questo metodo?
L’approccio di genere è fondamentale. Non è sufficiente disaggregare per sesso i dati, bisogna avere la capacità di costruire indicatori che siano sensibili al genere. Prendiamo ad esempio il tasso di occupazione del paese: da sempre il dato viene disaggregato tra uomini e donne ed emergono delle differenze. Ma se ci fermiamo a questo si capisce poco. Quello che invece bisogna trovare è la chiave fondamentale che spiega questa differenza, che nel nostro paese risiede nel ruolo familiare delle donne. I tassi di occupazione femminili delle single sono simili a quelli degli uomini, quelli delle madri sono molto diversi da quelli dei padri, soprattutto al crescere del numero di figli. Dobbiamo essere capaci di trovare indicatori che ci permettano di comprendere qual è la radice della differenza di genere, e se la differenza si trasforma in disuguaglianza. Questo significa capire realmente la realtà. Solo capendola in profondità è possibile agire per cambiarla con politiche adeguate. Ricordiamoci che le statistiche ufficiali sono un bene pubblico, devono servire al paese e quindi devono tener conto delle specificità di uomini e donne.
Crede che questa lettura abbia migliorato la qualità di vita delle donne?
Io credo di si, più i dati ufficiali riescono a far conoscere la realtà, più è possibile intervenire per modificarla. Ciò è prezioso per i decisori che possono individuare le politiche adeguate, così come per la società civile e l’associazionismo, che può utilizzare i dati per spingere perché le politiche se ne occupino. Prendiamo ad esempio l’indagine sulla violenza contro le donne, condotta per la prima volta dall’Istat nel 2006: ha prodotto una sorta di shock nel paese. Le donne sanno cosa vuol dire subire violenza e gli “addetti ai lavori”, soprattutto i centri antiviolenza, già dicevano dal canto loro che questa viene esercitata principalmente in famiglia, da parte del partner. I media parlavano invece spesso di stupri, fondamentalmente opera di stranieri sconosciuti per la strada. Aver fatto un’indagine statistica ha permesso di chiarire tramite i dati ufficiali la situazione: il 67% degli stupri è opera dei partner. Lo stesso vale per lo stalking: comprenderne il livello di diffusione ha contribuito a che venissero emanate norme a riguardo. Se non si conosce l’estensione di un fenomeno anche la sensibilizzazione è più difficile.
Un approccio meno economico e più umano, se vogliamo, che lei ha esteso anche ad altre categorie sociali.
A partire dagli anni Novanta, l’obiettivo che come Istat ci siamo dati è stato quello di chiudere una fase in cui le statistiche erano economico-centriche: al centro della misurazione c’era la vita economica del paese. Di conseguenza al centro dell’indagine c’erano soltanto i soggetti produttivi: i maschi adulti. Le donne, gli anziani e i bambini erano invisibili. La rivoluzione che è stata portata avanti ha visto mettere per la prima volta al centro i soggetti sociali: i cittadini con i loro bisogni, le loro condizioni e la loro qualità della vita. Le statistiche di genere sono state una chiave di lettura fondamentale perché la differenza di genere attraversa tutti i soggetti sociali e tutte le differenze. Abbiamo ormai elaborato un set di indicatori ricchissimo per poter descrivere adeguatamente la qualità di vita della popolazione. Le indagini su cui ci stiamo concentrando adesso, con lo stesso approccio, riguardano soggetti che vivono gravi forme di discriminazione, come gli immigrati o la comunità Lgbt. Sono sfide sempre più grandi. Vogliamo far sì che la statistica, che è un bene pubblico, sia sempre più democratica perché capace di dare voce a tutti, di rappresentare anche i segmenti più piccoli della popolazione.
Quanto c’entra con il modo in cui ha svolto il suo lavoro il fatto che lei sia donna?
Moltissimo! Una donna, da sempre abituata a combattere per i diritti delle donne, (come sono io da quando stavo al liceo), non può che essere più sensibile ai diritti di tutti e ispirare il suo lavoro quotidiano a questi valori.
Il suo è stato tra gli interventi più autorevoli dal palco senese di “Se non ora quando”, nel quale ha dipinto uno scenario preoccupante per quanto riguarda il mondo del lavoro femminile in Italia. Eppure sembra che qualcosa stia cambiando.
Stiamo assistendo ad un risveglio, le donne sono fortemente sovraccariche, non ce la fanno più. Io credo che ci sia la possibilità che entrino davvero in campo con forza. Quello che è successo a Febbraio non è casuale, è frutto di un processo trasversale che riguarda tutte. Se non ora quando è riuscito ad intercettare il sentire femminile e lo ha fatto con un grande entusiasmo e una trascinante carica. Il sentire comune delle donne ha bisogno di trovare un canale per potersi esprimersi. Le donne sono cresciute troppo nella loro coscienza per poter continuare a rimanere in questo stato nel nostro Paese, e la politica non è all’altezza di dare loro una risposta. Non si può continuare così. L’ho detto nella relazione a Siena, se le donne sapranno essere unite veramente e supereranno le divisioni che molto spesso purtroppo le caratterizzano nessuno, dico nessuno potrà fermarle, e tutto, dico tutto sarà possibile. Perché le donne hanno dimostrato di avere una grande forza e non si possono più permettere di disperderla.
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