“La poesia deve grondare sangue, dev’essere polisemantica, deve colpire l’occhio ritmica-mente e la testa concettualmente. La poesia è bellezza dolorosa che non sempre ha il fine di acca-rezzare l’anima, ma deve soprattutto ‘graffiarla’. Detesto i ritmi melensi, privi di originalità”: sono parole di Lina Luraschi, poetessa nata a Lurate Caccivio in provincia di Como, che ha al suo attivo alcune pubblicazioni, quali Le rughe delle bambole (1983), Il vizio di vivere (1989) e Il violino nella palude (1998), Scucita voce, Gilgamesh Edizioni, 2015, Batte l’assenza, Edizioni NOSM, 2016.
Non dice forse Charles Baudelaire che la poesia esige un grande sforzo della mente per esse-re compresa? Ancora: “Voglio la complicità del lettore nel gioco dell’interpretazione”: non dice forse Umberto Eco che il lettore diventa autore nel momento in cui entra in contatto con il testo? E, per terminare, “Non mi curo del contorno preciso dell'immagine, disdegno ogni discorso logi-co....assemblo seguendo il mio istinto senza preoccupazione alcuna: non dice forse Paul Verlaine nella sua Ars poetica: Musica prima di ogni cosa, / e perciò preferisci il verso Dispari / più vago e più solubile nell’aria / senza che nulla pesi o posi (…) Nulla è meglio del canto ambiguo, dove / l’Indeciso al Preciso si sposa (…) La Sfumatura è ciò che ci vuole (…)? (Paul Verlaine, Poesie, Bur, p. 229). Queste affermazioni di Baudelaire e Verlaine sono in realtà il manifesto della poesia moderna e Lina Luraschi è poetessa del suo tempo, senza nulla concedere né indulgere a forme di intellettualismo e sperimentalismo poiché fugge l’Arguzia e strangola l’eloquenza (ancora Paul Verlaine, op. cit.). La poetica della Luraschi aderisce agli intenti enunciati nella raccolta Scucita vo-ce? Sì. Il lettore sui versi di Lina la testa se la rompe e anche parecchio, ma non sono versi i suoi ir-raggiungibili o oscuri. Il lettore si immedesima in lei, nel suo io che vivifica le poesie, sempre scar-nificate e schiette, del tutto prive di oratoria o eloquenza.
Ad esaminare velocemente i titoli delle opere, c’è come un sentimento di mancata realizza-zione, di obiettivo non raggiunto nella poesia di Lina, la voce è incoerente, sconnessa - e si noti che la Poetessa vuole accentuare questo significato mettendo l’aggettivo prima del sostantivo nel titolo del libro, scucita voce -, il violino giace nel fango: voce e musica sembrano impossibilitati ad esprimersi. C’ è un’ala spezzato, un volo sgraziato, una parola monca, insufficiente. Si vedano le ripetizioni, nella raccolta citata, delle espressioni lingua incatenata o lingua legata.
Le metafore si affollano nelle poesie. Il silenzio (abbinato alla solitudine) è uno degli ele-menti presenti nella raccolta che cattura immediatamente l’emozione del lettore: chi di noi non vive momenti di quiete? Nella lirica di pagina 13 questa parola è ripetuta tre volte: Racconto del silen-zio…Racconto del silenzio…del silenzio ora sento i passi…Il silenzio è il luogo metafisico dove matura il pensiero di Lina che chiede aiuto alla parola, cerca sostegno nella poesia che possano, en-trambe, esprimere e conciliare l’inesprimibile. Allora al silenzio si oppone la voce o meglio i suoni, le lodi, la musica e un tempo futuro lascia presagire una più giusta dimensione, un più adeguato equilibrio: sarò vestale…sarò leggiadro abbraccio…andrò contro vento (p. 11). Il silenzio è un preludio di apertura alla rivelazione, apre un passaggio. Secondo le tradizioni, vi fu silenzio prima della creazione (la poesia?), ci sarà silenzio alla fine dei tempi. Il silenzio circonda i grandi avve-nimenti, dando alle cose grandezza e maestà, segna un grande progresso. Il silenzio, dicono le regole monastiche, è una grande cerimonia. Dio arriva nell’anima che fa regnare in lei il silenzio. Il silenzio per Lina è la voce che racconta anche lo scorrere del tempo lento nella vita dell’uomo di cui la Poetessa non vede solo le debolezze ma anche la forza.
La parola ossa ricorre spesso: gocce che scavano ossa / e ossa che parlano il linguaggio dei muti, p. 13; isole di parole non plasmate / rantolano fra osso e osso, p. 37; non arder invano per ossame, p. 40; e nell’ossario i ricordi, p. 39. Le ossa sono la struttura del corpo, l’elemento essen-ziale, relativamente permanente, durevole, anche primordiale e simboleggiano l’essenziale, l’essenza della creazione. D’altra parte, l’osso contiene il midollo come il nocciolo la mandorla. L’osso è simbolo di forza e di virtù. Rabelais diceva: Rompere l’osso e succhiare il sostanzioso midollo. Per alcuni popoli, l’anima risiede nelle ossa, da cui il rispetto che ne hanno.
Nonostante si avverta il pessimismo che si dibatte nel cuore di Lina, la forza che costituirà l’elemento positivo del mondo ricucito, è rappresentata, oltre che dalla metafora delle ossa, da quella del polso. Il polso (abbinato anche al simbolo della mano) è quella parte del corpo che comanda il lavoro manuale e che per i Bambara, discendenti dall’antico impero del Mali, rappresenta l’abilità umana (Sul polso sta la fine, p. 15; Al mio polso non portar sigillo / non temo il lampo che frantuma, p. 15; bevo l’eterno dal mio polso, p. 18; I polsi nei bavagli, p. 20; bevo l’eterno dal mio polso, p. 18; polsi ricamati da ciechi rasoi regalano briciole di pelle, p. 22; “Il buio bevve l’eterno dal suo stesso polso, p.43). Il polso sembra essere il fulcro, il centro della forza e dell’energia umana. Infatti, come nel caso delle ossa, c’è un continuo ricondurre il discorso alla materialità dell’uomo e un continuo andare e venire dalla materia allo spirito (Da cuore a ventre / passò fulminea la bellezza, p. 30). La ripetizione quasi della stessa frase: bevo l’eterno dal mio polso…il buio beve l’eterno dal suo polso sottolinea l’importanza che ha la dimensione oltre il tempo, per Lina, che smania d’ infinito / che confonde i contorni del reale (p. 55). Io sono arrivata là, sul confine, / dove i due mondi si tocca-no…(p. 54).
Il dolore (la sua lingua) o tormento o calvario o sciagura o gorgo è denso di pregnanza umana, simbolo del destino dell’uomo - ospite della vita - e del suo male di vivere, della sua fatica di vivere, del suo spleen: grido che rotola…buio che stringe la gola… Si legga, per esempio, il testo di pagina 34: Tra le rughe del tempo / strangolo il sorriso / Su croce lignea / agonizzanti ricordi / perpetuano smarrita via. Questi versi ricreano un quadro della condizione umana crudo e cupo, degno di Baudelaire; tutto va in questa direzione, il grido rappreso in gola, la parola impossibilitata o prigioniera, il timore che non ci sia più futuro, il canto che si mozza, si strozza in gola, isole di parole che rantolano, lacrime: (…) Miserie dai mille nomi / dilaniano il vuoto intestino / con il buio che stringe la gola / e lo strazio appeso a due trapezi / amputa le palpebre…(p. 21). Diceva il grande poeta francese: Vermi! Tetri compagni senza orecchi né lume, / Eccovi questo morto libero e spensierato, / Filosofi gaudenti figli del putridume, / Banchettate il mio rudere dunque senza rimorsi: /E dite se c’è ancora qualche tortura / Al mio corpo senz’anima, vecchio, morto fra i morti! (Charles Baudelaire, I fiori del male, Mursia, 1980, Il morto allegro, p. 171) dove la morte è vista come la cessazione di ogni dolore e il rudere evoca le ossa e lo scheletro. E ancora: Sono bella, o mortali, come un sogno di marmo, / E il mio seno, ove ognuno si è urtato con dolore /E’ tale da ispirare al poeta un amore / Che non ha fine, e muto è come il marmo, dove la bellezza è dolorosa ma indi-spensabile (op. cit. La bellezza, p. 59).
Simboli interessanti sono quelli della chiave e della porta. Chiave: giro chiavi di porte / spalancate sul nulla, p. 18; La chiave di tutto / sta nel modo / in cui il buio / inghiotte il sole / e la sera cade sempre in ginocchio / sul tappeto rosso sangue, p. 42; Una chiave nella toppa / per contare le stagioni, p. 27. Più avanti, nella stessa lirica, la mano diventa eternità, universo, terreno in cui vivono il paradiso e l’inferno. La chiave ha un ruolo d’iniziazione e di discriminazione, cosa che indica con precisone l’attribuzione delle chiavi dei cieli a San Pietro. Il potere delle chiavi è quello che permette di legare e di slegare, di aprire o di chiudere il cielo, potere effettivamente conferito a San Pietro da Cristo. Le chiavi di Giano, dio della porta, che può guardare sia all'interno sia all'esterno, aprono le porte del solstizio, cioè l’accesso alle fasi ascendente e discendente del ciclo annuale, alle dominazioni rispettive dello yin e dello yang, che trovano il loro equilibrio negli equinozi. Giano era anche considerato come la guida delle anime: da cui il suo doppio volto, l’uno volto verso la terra e l’altro verso il cielo. Un bastone nella mano destra, una chiave nella mano sinistra, sorveglia tutte le porte e governa le strade. Dunque chiave che permette l’accesso a una dimora spirituale e ad un grado di iniziazione di avvicinamento al mistero. Questo tema è rafforzato dall’immagine della porta - Siamo schiavi senza porte, (p. 16) - che simboleggia anch’essa un luogo di passaggio (stesso tema che abbiamo osservato a proposito del tema del silenzio), tra due stati, tra due mondi, tra il conosciuto e l’ignoto, la luce e le tenebre. La porta apre sul mistero e alla rinascita: Porta dopo porta conducimi alla tua mensa / sarai ostia consacrata / sul palmo della mano (p. 37).
Non sempre la poesia della Luraschi gronda sangue, non sempre graffia l’anima: a volte l’accarezza e lo fa con estrema dolcezza, tenerezza e leggerezza: Semmai vivrò domani / sarò vestale dal viso dorato / musica che accarezza il mondo / nelle sue catene / sarò leggiadro abbraccio / come filo di seta / andrò contro vento / e chiuderò le ciglia (p.11), dove Lina si fa carico di mantenere vivo il fuoco sacro della poesia.
La lirica di Lina è gotica, profonda, ricchissima di metafore e simboli, che rappresentano la sua visione del mondo e la sua poetica, oscilla continuamente tra materialità e spiritualità, vuole pe-netrare il mistero che circonda l’uomo. Attraverso la poesia – Lina è malata di poesia -, cerca l’equilibrio tra gli opposti, si fa testimone della condizione umana: l’uomo (tuttavia forte e corag-gioso) - nato già intagliato a forma di calvario - è schiavo, torturato dalla sofferenza – Solo il solco del dolore / rapprende il sangue - e dalla solitudine - il condolere comune -, prigioniero dei giorni, incatenato, incapace di sognare e di desiderare. L’uomo è straniero alla vita, è l’étranger di Albert Camus: sai quanto è dura la mia pelle / per i chiodi della vita? (p. 54).
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