Architettura / Il nuovo Umanesimo - Una diversa visione del mondo, che rivaluta l'arte povera ed ispira la filosofia dei new-global, nei progetti dell’architetta Lina Bo Bardi
Giulia Salvagni Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2004
Lina Bo Bardi (Roma 1914 – San Paolo 1992) ha creato spazi dove tutte le persone, senza distinzione di classe o di razza, potessero respirare a pieni polmoni, divertirsi, ricrearsi. La sua sensibilità artistico-architettonica aveva attinto dal padre, Enrico Bo, anarchico con una vita avventurosa, costellata da tanti mestieri: proprietario di una fabbrica di giocattoli, grafico, costruttore a Roma di buona parte del quartiere popolare Testaccio, dove ebbe cura di dotare gli edifici di comfort e di cortili con giardino.
“La tesi di laurea di Lina fu scandalosa per l’epoca (era il 1939), dato che era una Maternità per madri nubili – racconta la sorella Graziella Bo -. E, per di più, fu discussa davanti a due esponenti dell’architettura di regime come Giovannoni e Piacentini. Lina dovette anche farsi prestare il vestito da Giovane fascista, dato che non l’aveva ma era obbligatorio”.
L’esperienza di Lina Bo Bardi si ripropone all’attenzione del pubblico nell’edizione del catalogo retrospettivo (Marsilio) pubblicato a corredo della recente esposizione presso la Galleria di Arte moderna Ca’ Pesaro a Venezia.
La mostra ricorda il percorso umano e professionale dell’architetta, prima nella società italiana poi in Brasile, dove si trasferì insieme al marito, Pietro Maria Bardi, alla fine degli anni Quaranta.
In Italia Lina Bo fu, con Carlo Pagani, alla direzione della rivista Domus (1944); dal 1940, fu collaboratrice presso lo studio milanese di Gio Ponti. A Milano fu una delle fondatrici del Movimento di Studi per l'Architettura (MSA). Il marito aveva fatto esperienza come critico d’arte e gallerista; era giornalista presso il Corriere della Sera. Alcuni suoi scritti teorici fanno di lui uno tra i principali propulsori del modernismo in arte e architettura.
L’occasione per il trasferimento in Brasile dei due (nel 1946, poco dopo essersi conosciuti), venne fornita dall’invito a Pietro Maria Bardi (da parte dell’intellettuale Assis Chateaubriand) per un incarico di consulenza alla costituzione del nuovo Museo d’arte della città di San Paolo, ma per Lina questo viaggio divenne in breve tempo un’esperienza di profondo confronto e scambio tra le innovazioni della cultura europea ed il carattere popolare della cultura brasiliana.
Il museo doveva essere costruito “dove c’era il denaro” diceva l’artista, che considerava la capitale dello Stato sudamericano: “confusa, senza luoghi per passeggiare”. In quel caos, dove si fronteggiavano in modo drammatico modernità e cultura indigena, trovò un mondo che guardava con curiosa avidità allo stile occidentale, con le tecnologie avanzate, gli stili essenziali, ma che non poteva rinunciare al forte legame con la natura e le tradizioni rurali. È in questo ambiente che Lina iniziò ad unire spazi antichi e moderni, a integrare la natura tropicale a soluzioni architettoniche raffinate, riuscendo a fondere la rigogliosa fantasia sudamericana alla sobrietà dello stile occidentale.
Nei suoi disegni non c’è muro di edificio dal quale non spunti una pianta, o che non porti un elemento ispirato alla natura: scale come fiori, finestre a forma di cellule giganti; ovunque legni e ciottoli di fiume. La Casa de Vidro (1951) è appunto un esempio alternativo di architettura razionale, ben impiantata nella più selvaggia vegetazione del nuovo continente, sarà il primo progetto realizzato da Lina Bo in Brasile. Attualmente è sede dell’istituto Bo Bardi, costituitosi per divulgare e proseguire l’opera dell’architetta e del marito.
Prodotti industriali locali, materiali grezzi e rudimentali, piastrelle di ceramica fatte a mano, sono gli elementi che Lina Bo scelse per contrapporre un’architettura imperfetta a quella asettica da Primo mondo. Adottò il linguaggio del riciclo tipico delle favelas e delle case popolari dell’entroterra brasiliano. A questo proposito vale la pena ricordare gli studi sull’artigianato, le esposizioni e la creazione del Museo di Arte Popolare di Bahia, e più tardi della Casa del Benin sempre a Bahia.
Un manifesto ideale della “poetica della povertà” si oppone agli spazi creati dalle accademie ipermoderne, spazi concepiti da una cultura fredda, responsabile della divisione del genere umano tra superstiti di un mondo da cancellare, condannati alla distruzione ecologica, da un lato e dall’altro ricchi promotori di un progresso cieco in nome di una democrazia finta, violenta.
Lina lavorò anche nei campi del design, della scenografia, della museografia, del cinema, dell’editoria e della didattica. Si definiva comunista. Ai suoi collaboratori citava spesso Gramsci e la critica della cultura industriale. Nella sua nuova idea di cultura, espressione di un impegno morale che integrasse l’efficienza tecnologica alle radici dell’esperienza popolare, il “popolare” non è inteso come folclore ma come portatore di un nuovo senso dell’umanesimo. Quel nuovo Umanesimo che dal Terzo Mondo giunge oggi, attraverso i new-global, a sventolare le sue bandiere multicolori sotto le grigie, fredde stanze del potere del Primo mondo.
Le idee innovative di Lina caratterizzano anche la concezione architettonica del MASP (1957-1968) del quale lei stessa disse: “Credo, nel Museo de Arte de São Paulo, di aver eliminato lo snobismo culturale così amato dagli intellettuali, optando per soluzioni dirette, spoglie”.
Assis Chateaubriand - proprietario del maggiore complesso di comunicazioni del Brasile - volle che il progetto della nuova sede del museo, si realizzasse in Avenida Paulista, conosciuta in Brasile come un “corridoio” economico e finanziario che conferisce alla città uno status da Primo Mondo. L’edificio è cresciuto sullo sfondo di una veduta panoramica di forte impatto della città, dove un grande complesso di grattacieli testimonia il potenziale turistico della Regione, famosa per le sue architetture in stile europeo. Ma per Lina il museo doveva esprimere l’“arquitetura pobre”, architettura povera, semplice, in grado di comunicare ciò che in passato fu chiamato “monumentale” intendendo con questa parola un forte senso di “collettivo”. Un senso che si traduce nel volume orizzontale di vetro e cemento inserito tra due piani poggianti su quattro pilastri laterali, formando uno spazio libero sottostante di 74 metri. Spazio collettivo, appunto, dal quale si offrono due vedute al visitatore: una sulla Avenida Paulista, l’altra, sul fondo, verso il centro della città. Questa soluzione rispetta un’esigenza della Prefettura di San Paolo, secondo la quale con l’edificio si doveva riformare un belvedere preesistente che fu demolito.
Lo spazio dell’Esplanada Lina Bo Bardi rappresenta per gli abitanti di San Paolo una sorta di scenario per le manifestazioni più diverse, artistiche, politiche o sociali. Uno scenario di vera civiltà urbana di carattere popolare dove si legge l’intenzione di invitare il visitatore alla comprensione dei diversi generi dell’arte presenti nel MASP.
Il più grande museo dell'America latina, è custode di migliaia di importanti opere d’arte (di Raffaello, Botticelli, Rembrandt, Velasquez, Goya, Manet, Cézanne, Degas, Van Gogh, Délacroix, Portinari) si sostiene grazie a cospicui finanziamenti, sia dei promotori dell’iniziativa, sia di alcuni imprenditori paulisti illuminati. Ma nessun elemento di carattere elitario è stato accolto in questo spazio collettivo che più che essere un contenitore per esporre arte sembra gestito come un centro culturale. Le diverse attività in esso svolte (mostre di pittura, scultura, architettura, incisione, design, arredamento, moda, musica, danza, biblioteca, scuola, teatro, cinema, workshops, avant première di libri, conferenze) e gli spazi differenziati per le esposizioni temporanee, seguono la strategia didattica volta alla “comprensione dell’arte”, sempre indirizzata a favore della creazione di una cultura brasiliana autentica, che valorizzi le proprie radici.
Strategia che era stata di Pietro Bardi e che ha visto aumentare di anno in anno il numero di visitatori. Una strategia, infine, che ha reso possibile l’esposizione di opere di grande valore senza escludere l’attenzione verso il lavoro dei giovani artisti.
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