Mercoledi, 03/09/2014 - Non vuole etichette Letizia Battaglia, la fotoreporter italiana più apprezzata e premiata. Perché in lei immagini e vita si fondono.
A Milano, nel ’71 impara a fotografare e a non sentirsi terrona: “Erano anni così, essere meridionali in quel clima sociale meritava rispetto”. E a riprendersi in mano la vita, a 37 anni, insieme alle sue figlie.
Fotografare è un suo dovere, il suo modo di combattere. Ferma in un’immagine l’orrore e la paura. Sono gli anni palermitani dei delitti di mafia, della sua collaborazione al quotidiano “L’Ora” insieme a Santi Caleca, nel 1974.
Non solo foto di cronaca, ma dell’azione della mafia sulla società siciliana, mettendo in pratica le parole che Giovanni Falcone avrebbe detto più tardi: “Convivere con la paura e non farsene condizionare. Il coraggio è questo”. Indaga il degrado ambientale, la disoccupazione, la condizione femminile, il lavoro minorile, ma anche i salotti borghesi, il gioco dei bambini per le strade. Non le interessa la perfezione della tecnica. Vuole testimoniare.
Palermo, la sua città, costringe a scegliere in tempo da che parte stare. E lei sceglie subito.
Negli anni in cui la comunicazione era diversa da oggi, bisognava fotografare, sviluppare, stampare e correre a consegnare, dalla casa-laboratorio con la camera oscura, al portone della sede vicina del giornale, con le foto ancora bagnate in mano: “Uscivamo di corsa, il cuore a mille, incontro a qualcosa di cui ancora non sapevamo niente. Non si trattava solo di andare a fare una foto. Andavamo ogni volta incontro alla nostra storia. La stavamo scrivendo. Una storia di guerra, di vincitori e vinti. Dalla guerra non ne siamo più usciti”.
Anni passati con l’incubo della sirena e del telefono che squilla. Giorno dopo giorno, dentro la guerra. Nelle sue fotografie di corpi straziati sembrano fissati anche i rumori, mescolati alle voci, pianti, urli. La vita vissuta e immobilizzata mentre accade.
Difficile per l’unica donna in Italia, in quanto donna, lavorare all’interno di una redazione come fotografa, in una società come quella di quegli anni. Se sulla scena di un crimine non lasciavano passare i fotografi si metteva a gridare: “Perché la Rai può passare e noi no? Poi la polizia ha capito che anche se ero una donna ero una professionista seria”.
Forte il connubio di vita, lavoro, passione, l’impegno sociale con Franco Zecchin. Lui la ricorda nell’ attico a Palermo, quando a otto anni è invitato al compleanno dell’amichetta Patrizia, figlia di Letizia. Una mamma diversa, una casa di donne curiosa, attrattiva. Poi nel ’75 l’incontro a Venezia con Franco cresciuto, lei quarant’anni, lui ventidue. Gli insegnerà i doveri e le regole del mestiere. Una relazione intensa, fuori dagli schemi, durata quasi vent’anni. La coppia Letizia-Franco sarà tra i soci fondatori del Centro siciliano di documentazione dedicato nel 1980 a Giuseppe Impastato.
Di fronte a una nuova ferita - nell’ ’83 viene ucciso il giudice Rocco Chinnici- matura l’idea di fare qualcosa di più. Intanto, nell’ 85 vince il premio Eugene Smith, uno dei più prestigiosi riconoscimenti offerti dalla critica a livello internazionale per la fotografia dell’impegno. Si dedica alla politica, al teatro, realizza docufilm, fa volontariato in un ospedale psichiatrico perché vuole raccontare l’altro volto della follia.
Alle mostre porta le sue immagini-documento e discute, parla ai giovani, agli studenti negli incontri sempre affollati.
Nella biografia “Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni” a cura di Giovanna Calvenzi, amica e fotografa (Mondadori, 2010) la raccolta di scritti di persone che l’hanno conosciuta dimostra che la sua dedizione, la generosa passione hanno un alto valore di testimonianza e insegnamento.
Adesso a quasi ottant’anni, dopo aver trasmesso la sua arte e guadagnato la stima di tanti giovani, poi diventati famosi, dice che non riesce più a fare la fotoreporter, “a inseguire con eleganza e armonia i fatti della vita”. Continua a vivere a Palermo, nella sua casa luminosa che guarda i tetti e le montagne, tra l’odore del basilico, i pomodorini rossi, le pomelie bianche e anche rosa, e tante piante di papiro. “Se un giorno non riuscirò più ad arrabbiarmi e a battermi per questo, so che allora potrò andare via”.
Ora scatta solo foto che esprimano qualcosa di personale, scatti al femminile. Figure di donne e bambine in bianco e nero in cui rivede se stessa bambina. Imbronciata, con i capelli arruffati e lo sguardo triste, l’altra timida e delicata. Se stessa bambina quando viene ritirata dalla scuola a tredici anni perché alle femmine non serve studiare, si sposano presto. Letizia sarà proprio una sposa bambina di sedici anni, passata da un padre retrivo a un marito che non capiva le aspirazioni di una giovane donna con ambizioni di scrittrice. Poi l’incontro con la macchina fotografica e l’apertura al sogno di libertà.
La sua forza risiede nella vecchiaia, un potere costruito in anni di onestà, fatica, sofferenza e rispetto. Un’esistenza non convenzionale, decisa ad opporsi ad ogni forma di ipocrisia e di violenza. I suoi scatti sovrappongono sogni, desideri, il bisogno di silenzio e di chiasso, rabbia e dolcezza, un sentire profondo e complicato. “Non ci sono fotografie, mostre o politica o successi che possano sostituirsi al mio essere stata madre, al mio avere voluto essere madre, a sedici e poi ancora a diciannove e poi a venticinque, al mio aver mescolato tutto, al mio essere cresciuta mentre loro crescevano. La mia vita è stata anche piena di bellezza”.
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