Leila Alaoui, la fotografa dei gesti che scompaiono
La reporter era a Ouagadougou, in Burkina Faso, quando il 15 gennaio è stata uccisa in un attentato jihadista. Stava lavorando per Amnesty International a «My Body My Rights», progetto sui diritti delle donne.
Metterne in risalto la fierezza e la dignità. Mostrarne l’eleganza. Sono queste le parole cheLeila Alaoui usava per parlare dei soggetti ritratti in uno dei suoi ultimi progetti, Les Marocains. Il punto di arrivo di un viaggio itinerante, insieme a uno studio fotografico mobile, per raccontare la popolazione locale del Marocco. Alti due e metri e mezzo, imponenti, i ritratti erano stati esposti a Parigi in occasione della prima edizione della Biennale della fotografia araba. Immortalavano uomini e donne di diverse etnie della parte rurale del Paese, l’archivio visivo delle tradizioni e di un’estetica che rischia di scomparire.
«Tra gli arabi, i Marocchini hanno il rapporto più complesso con la fotografia. La loro apprensione è dovuta a una forma di superstizione. A questo si aggiunge una stanchezza per il turismo di massa, che allontana dalla macchina fotografica. La mia speranza è riuscire a mostrare le tradizioni del Paese oltre un racconto di folklore», aveva dichiarato in un’intervista al Guardian. «Sono del Marocco ma quando viaggio di regione in regione ho la sensazione di cambiare paese. Ho voluto fare un viaggio culturale come Robert Frank quando ha lavorato a The Americans. Catturare le tradizioni che stanno scomparendo e farne un archivio visuale».
Nata a Parigi nel 1982 e cresciuta a Marrakech, Leila aveva studiato fotografia e antropologia a New York. Il superamento delle frontiere, la duplicità dell’essere che si ottiene non fermandosi in un solo posto, era proseguito anche dopo il periodo degli studi. Quando, lasciata la Grande Mela, Leila era tornata in Marocco e aveva realizzato un lavoro sui migranti, soggetti costanti nei suoi interessi da giornalista. Poi, il Libano. Come spiegava in un’intervista ad Al Jazeera, la fotografia diventava il mezzo per superare le frontiere, raccontare le identità e le diversità culturali, le storie dei migranti. Ed erano proprio le sue origini, raccontava, a permettere il superamento di confini che sarebbero stati altrimenti difficili da valicare. No pasara, lavoro sui giovani che cercano di raggiungere l’Europa, è il suo più significativo progetto sulla migrazione. Tema affrontato anche in Crossings, video installazione che riproduce il viaggio dei subsahariani per raggiungere il Marocco. Era poi venuta la volta di Beirut, dove nel 2013 aveva lavorato a un progetto sui profughi siriani.
«Era un’artista che brillava», scrive il New York Times, «e lottava per i dimenticati della società, i migranti». «Avete visto il sorriso radioso che mostrava sempre quando veniva fotografata?», ricorda Fatym Layachi, autore marocchino e amico d’infanzia, «Ecco, era questo il suo segreto. Era determinata a difendere la sua causa. Ed era in grado di scovare la bellezza in tutte le cose e in ogni persona. Ritrasmettendocela».
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