CHIEDI AL CRASFORM - Alla crescente partecipazione delle donne italiane sul lavoro non corrisponde un’adeguata redistribuzione dei compiti familiari.
Castelli Alida Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2006
Studi sull’evoluzione del diritto del lavoro alle soglie dell’anno 2000 sottolineano che uno dei principali fattori di trasformazione strutturale dei mercati del lavoro è rappresentato dal comportamento della componente femminile. È un dato ormai acquisito che alla sempre più crescente partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro non ha fatto seguito un’adeguata redistribuzione dei compiti familiari, né è mutato l’approccio culturale al problema. Alle donne infatti rimane attribuita la maggior parte del carico del lavoro familiare, indipendentemente dalla presenza o no di un lavoro extra domestico.
Se si considera il lavoro di cura e il lavoro extra domestico (Indagine Multiscopo del 2001), il 48,4% delle donne in coppia con figli fino a 13 anni lavorano più di 60 ore alla settimana contro il 12% degli uomini. E l’unica soluzione per “liberare tempo” sembra essere il part-time.
Le conseguenze di questo squilibrio nella distribuzione del lavoro di cura e domestico, oltre che sulla qualità della vita delle donne, incidono anche sulla stabilità della permanenza al lavoro: per le donne tra i 21 e i 30 anni la presenza di un figlio in età da 0 a 1 anno implica una diminuzione del tasso di attività che raggiunge il 18% nel nord ovest del paese e che rimane invariato nel centro; ma con un bambino in età 1-3 anni anche le donne residenti nel centro Italia escono dal mercato del lavoro nel 22% dei casi.
Il problema è stato posto con forza dall’Unione Europea, che con una serie di azioni ha sollecitato gli stati membri ad attuare politiche dell’occupazione che non trascurassero gli aspetti più peculiari legati al lavoro delle donne. Appare chiaro che gli obiettivi definiti a Lisbona per il 2010, che prevedono un tasso di occupazione femminile pari al 60%, non potranno essere raggiunti senza una serie coordinata di interventi in materia di conciliazione, tali da consentire alle donne di entrare nel mercato del lavoro e di restarci. A distanza dall’approvazione della legge 53/2000, si può dire che sono stati fatti pochi passi avanti, anche se i cambiamenti culturali necessari richiedono sicuramente tempi più lunghi.
La 53/2000 rappresenta il primo provvedimento legislativo che ha tentato di affrontare organicamente un problema la cui soluzione è da sempre stata affidata nel nostro paese a strategie di tipo individuale, stante anche la insufficiente dotazione di servizi sociali: strategie che di volta in volta le singole donne adottano, e che vanno dalla rinuncia alla maternità, al suo allontanamento nel tempo, al ricorso a reti di solidarietà parentale. Se finora il problema della conciliazione tra tempi diversi della vita è stato considerato soltanto un problema delle singole donne, oggi due elementi ne evidenziano invece la strategicità:
• l’aumentata richiesta di flessibilità da parte delle aziende, che invade il tempo della vita e impone di riconsiderarne gli equilibri, per uomini e donne;
• la necessità, come si diceva, di aumentare il tasso di occupazione delle donne, che deve riconsiderare strategie adeguate non solo all’accesso al mercato del lavoro ma anche alla permanenza.
Efficaci sistemi di conciliazione non possono non vedere coinvolti attori molteplici e consapevoli: le imprese, le OO.SS., il sistema del welfare pubblico, il sistema dei servizi privati, gli individui, le strategie comunicative e informative finalizzate alla promozione di nuovi atteggiamenti culturali e alla conoscenza delle opportunità già oggi offerte dalla legge. Ma anche una attenta valutazione sui meccanismi messi in atto dalla L.53 appare quanto mai opportuna.
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