Parliamo di Bioetica - La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato la legge sulla fecondazione assistita perché viola il diritto al rispetto della vita privata e familiare dei coniugi
Battaglia Luisella Lunedi, 22/10/2012 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2012
La legge 40 ha ricevuto una solenne e meritata bocciatura anche da parte della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Prendendo in esame il caso dell’impossibilità per una coppia fertile, ma portatrice sana di fibrosi cistica, di accedere alla diagnosi pre impianto degli embrioni, si rileva come la legge, nella sua attuale formulazione, violi il diritto al rispetto della vita privata e familiare dei coniugi e come sia incoerente con un’altra legge del nostro stato che consente l’aborto terapeutico in presenza di gravi anomalie genetiche nel nascituro. Gli argomenti sono entrambi di grande rilievo etico e giuridico e dovrebbero sollecitare la nostra riflessione. Se l’incoerenza del nostro sistema legislativo è così palese da esigere interventi immediati, altrettanto urgente è la revisione dell’impianto complessivo della legge di cui viene colpito in breccia uno dei punti più controversi, quello che consente l’accesso alla procreazione assistita solo nei casi di sterilità documentata e non risolvibile terapeuticamente, negandolo alle coppie ‘a rischio’, portatrici di malattie genetiche trasmissibili al concepito. Quali le ragioni di tale divieto? Leggiamo le linee guida della legge 40: “È proibita ogni diagnosi pre impianto con finalità eugenetiche, ossia di selezione e miglioramento della razza”. Oggi ci sono alcune parole - eugenetica è una fra queste - che evocano immediatamente i fantasmi del passato, di quel fondo oscuro da cui la nostra epoca vuole allontanarsi come da una memoria insostenibile. Può essere comodo evadere da un dilemma morale ricorrendo ad un’espressione che blocca immediatamente ogni discorso: in campo bioetico, come si vede, tale espediente è fin troppo impiegato. Praticare un esame genetico dell’embrione significherebbe dunque imboccare una china che porta direttamente ad Auschwitz e ai campi di sterminio. Certo, la scienza e la tecnologia come tutte le imprese umane sono sempre ‘a rischio’: non se ne esce, tuttavia, profetizzando pericolosi piani inclinati, la cosiddetta reductio ad Hitlerum. Di qui l’evocazione degli spettri del nazismo e dell’eugenetica, come se garantire un figlio dalle malattie genetiche e pianificare a freddo una razza di superuomini facendo incrociare gli esemplari femminili e maschili più avvenenti, fosse la stessa operazione.
Poco importa a questa logica davvero totalitaria conoscere le ragioni che spingono una coppia portatrice di malattie genetiche a chiedere tale esame. La richiesta, si obietterà, è comunque da respingere perché aprirebbe la porta alla ‘medicina dei desideri’, al supermarket genetico, ai bambini su ordinazione, etc. Ancora una volta, anziché intraprendere il cammino paziente e difficile delle regole che, ponendo limiti, distinguano il lecito dall’illecito, facendo appello al discernimento e alla responsabilità individuale, si preferisce quel proibizionismo di cui la legge 40 è un esempio clamoroso. Sarebbe vano, pertanto, aggiungere che la richiesta della coppia riguarda solo patologie di comprovata gravità in vista di un obiettivo eticamente fondato: una procreazione consapevole e responsabile, basata sulle conoscenze oggi disponibili relative alla salute e alla qualità di vita del nascituro. E’ condannabile tale intenzione? Dovremmo rimpiangere l’ignoranza di un tempo in cui la procreazione era un destino, la nascita un rischio, la malattia un castigo?
“Ai richiedenti - si legge nella sentenza - viene lasciata una sola opzione, che genera angoscia e sofferenza: intraprendere una gravidanza attraverso metodi naturali e abortire nel caso in cui un esame riveli che il feto è malato”. Si parla di “angoscia” e di “sofferenza”..Come non essere colpiti da un’attenzione e un rispetto autentico per i sentimenti reali delle persone concrete, non di quegli astratti soggetti giuridici, cui la nostra legislazione sembra ormai esclusivamente dedicarsi? Salvo poi ricadere nel più oppressivo paternalismo… Si ha l’impressione, in effetti, dopo la legge 40, di vivere in uno stato paterno, una via di mezzo tra il precettore e la guida, che tratta i cittadini come minorenni, bisognosi di protezione e di tutela, incapaci di decidere autonomamente. Uno stato che penetra sempre più profondamente negli affari privati e si insedia ogni giorno di più a fianco di ogni cittadino per assisterlo, consigliarlo e costringerlo.
La sentenza ha il merito di ricordarci, con sobrietà e fermezza, - semmai ce ne fossimo dimenticati - che esiste una sfera di liceità, quella propria dello stato liberale, che dovrebbe consentire a ciascuno, in piena libertà di coscienza, di assumere decisioni relative ai suoi progetti, anche procreativi, che corrispondano alla sua idea di ‘vita buona’. Se riconosciamo nella salute un bene e un valore dovremmo, per coerenza, realizzare tale bene con tutti i mezzi a nostra disposizione, sottolineando la particolare responsabilità dei genitori di assicurare la qualità della vita di quanti mettono al mondo, grazie alle informazioni che la scienza è in grado di fornire. Spetterà ora al nostro stato dare attuazione a quanto stabilito dalla Corte europea, garantendo, contro ogni logica proibizionista, la libertà delle scelte, l’eguaglianza tra le persone, il rispetto della dignità di ognuno.
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