Parliamo di bioetica - È in atto un processo di revisione critica di una legge che continua a mostrare, nel corso della sua applicazione, gravi carenze e contraddizioni
Battaglia Luisella Lunedi, 21/09/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2009
Fino a ieri a una coppia portatrice di malattie genetiche si aprivano tre soluzioni: la decisione di non avere figli, quella di accettare la nascita del figlio malato, quella di ricorrere all’aborto terapeutico. Oggi la biotecnologia consente di individuare l’esistenza, già nell’embrione, del gene difettoso, prima del suo trasferimento in utero e, quindi, di evitare l’impianto di un embrione malato. Sennonché tale metodica è vietata dalla legge sulla fecondazione assistita e molte coppie con malattie genetiche vanno all’estero per avere bimbi sani (il cosiddetto ‘turismo procreativo’che sta assumendo proporzioni sempre più rilevanti). Si tratta di un desiderio condannabile per il suo egoismo? Di un esasperato bisogno di ‘normalità’ o, peggio, di una strisciante espressione di eugenetica?
Una recentissima sentenza del tribunale di Bologna ha riaperto il dibattito, consentendo ad una donna portatrice di distrofia muscolare di usufruire della diagnosi preimpianto dell’embrione. Una sentenza importante di cui è difficile sottovalutare l’importanza: per la prima volta, infatti, si riconosce anche alle coppie non sterili il diritto di accedere alla fecondazione assistita e, in particolare, si ammette il ricorso ai centri di procreazione medicalmente assistita anche per i genitori che abbiano avuto in precedenza figli con malattie genetiche. In tal modo viene colpito un altro punto fondamentale della legge 40, dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha annullato la norma che imponeva la formazione e il contemporaneo impianto di non più di tre embrioni.
Contro la decisione del tribunale si è scagliata la sottosegretaria alla Salute Eugenia Roccella che ha parlato di “vero e proprio tentativo di riscrittura della legge 40”. Non si può negare, in effetti, che sia in atto un ampio processo di revisione critica di una legge che continua a mostrare, nel corso della sua applicazione, gravi carenze e contraddizioni a causa della sua natura profondamente illiberale. Viviamo, fino a prova contraria, in uno stato democratico in cui, per via giudiziaria o legislativa, è consentito ai cittadini di intervenire su quei prodotti umani, eminentemente soggetti ad errore, che sono le leggi e di contribuire ad una revisione della normativa che tenga adeguato conto del pluralismo etico con cui si dovrebbero affrontare le questioni di inizio vita.
Nelle linee guida relative alla legge sulla fecondazione assistita si legge:”È proibita ogni diagnosi preimpianto con finalità eugenetiche ossia di selezione per migliorare la razza”. Se l’estensore delle linee guida sembra evocare il fantasma di Rosenberg o di qualche altro teorico del ‘mito ariano’, v’è stato chi non ha esitato a parlare di “nuova rupe Tarpa” o a profetizzare che, di questo passo, “si arriverà a selezionare bambini con occhi azzurri e capelli biondi”.
Il caso biologico e la selezione naturale sono stati, per millenni, nella storia dell'umanità i padroni incontrastati di ogni feto umano. Gli uomini hanno subìto tale fatalità che sembrava iscriversi in quell'ordine naturale che nulla, in apparenza, poteva mettere in discussione. Dovremo allora elogiare il caso e ritenere che esso rappresenti una condizione necessaria per l’espressione di quei diritti dell'uomo - libertà, eguaglianza etc.- che riteniamo fondamentali? O ritenere, invece, che possa trattarsi di un preciso impegno dei genitori garantire la qualità della vita di quanti mettono al mondo, grazie alle informazioni che la scienza nel frattempo ha loro fornito?
La scienza e le biotecnologie come tutte le imprese umane sono sempre ‘a rischio’. Non se ne esce, però, “spegnendo i lumi” o evocando, dinanzi alla possibilità concreta di raddrizzare gli errori di una natura talora matrigna, pericolosi piani inclinati. Di qui l’evocazione degli spettri del nazismo e dell’eugenetica, come se garantire un figlio dalle malattie ereditarie e pianificare a freddo una razza di superuomini, facendo incrociare gli esemplari femminili e maschili più avvenenti, fosse la stessa operazione. La capacità di non confondere le cose non è solo qualcosa che ha a che vedere con la scienza e con l’analisi: è una disposizione etica iscritta nel cuore stesso del liberalismo.
La discussione sul problema della diagnosi reimpianto non può certo esaurirsi nel “permettere” o nel “vietare”: sappiamo bene che il codice penale non è l’alfa e l’omega dell’etica. Occorrerebbe chiedersi perché i critici della diagnosi pre-impianto si limitino a parlare di un diritto di libertà della coppia - quello ad essere informata sul reale stato di salute dell’embrione per poi decidere in merito - e non anche di un dovere, serio e fondato come tutti i doveri, che appartiene ai genitori nei confronti dei figli nel quadro di un’etica della responsabilità. Il dovere, intendo, di assicurare ai figli, nei limiti del possibile - limiti che il progresso scientifico tende continuamente ad ampliare - la migliore qualità della vita. Se riconosciamo nella salute un bene e un valore e se affermiamo un diritto alla salute costituzionalmente garantito, dovremmo, per coerenza, sforzarci di realizzare tale bene con i mezzi a nostra disposizione. La diagnosi pre-impianto è appunto uno di questi mezzi: un procedimento che mira a diagnosticare un evento patologico per evitare, nei limiti del possibile, che - come avveniva nel passato - la nascita sia un rischio e la malattia un castigo.
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