Lotta alle mafie, il dire e il fare delle donne - Senza la società civile non ci può essere lotta alle mafie. La repressione serve, ma non è sufficiente
Rosa Frammartino Martedi, 15/12/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2009
Inaspettatamente le nostre strade si sono incrociate. Sono passati molti anni da quando abbiamo lasciato Caulonia, nostro comune paese di nascita, per emigrare, io all’università di Modena e tu negli Stati Uniti. Oggi alterni la tua densa attività di studioso delle organizzazioni criminali, e della ‘ndrangheta in particolare, all’insegnamento in una prestigiosa università americana. A questo impegno educativo, oltre che alla nostra antica amicizia, è legata la tua presenza a Modena e Reggio Emilia per spiegare agli studenti che cos’è la “ndrangheta”, un fenomeno che, giorno dopo giorno, scoprono essere vicino, anzi vicinissimo alle loro vite, alle loro case.
La tradizione ci presenta ancora la ‘ndrangheta come un bucolico mondo di pastori, rispettoso di regole e valori. E’ questa la ‘ndrangheta che studi?
La caratteristica principale della 'ndrangheta è la capacità di adattarsi a qualunque situazione. Per decenni è stata considerata una mafia stracciona, meno sofisticata rispetto alle altre organizzazioni criminali. Questa sottovalutazione ha contribuito a farla crescere, a proiettarla nei circuiti internazionali del traffico di droga. Oggi la 'ndrangheta è la mafia più ricca e più potente. E per studiarla bisogna inforcare le lenti bifocali che servono a vedere lontano, ma anche vicino a due palmi dal naso. La commissione parlamentare antimafia l'ha definita un'entità liquida, citando malamente Bauman. La 'ndrangheta non può essere annacquata nella globalità liquida. Essa prima di essere globale è locale, così come è fortemente tradizionale ed estremamente innovativa, un mix di arcaicità e di postmodernità.
Perché una società criminale, viene ancora oggi definita “onorata società”?
Senza valori, senza quadri di riferimento, senza simboli nessun gruppo umano regge. Le mafie si sono creati il mito, le ascendenze nobili. Il mito come i codici serve a dare legittimità, a creare un senso di appartenenza. In verità, non ci sono mai state mafie vecchie e buone, parsimoniose nell'uso della violenza, studiose dell'onore e del rispetto. Le mafie sono sempre state mafie. E non esistono valori positivi che siano anche mafiosi.
Quanto è importante coinvolgere la società civile nella lotta alle mafie?
Senza la società civile non ci può essere lotta alle mafie. La repressione serve, ma non è sufficiente. Quello della lotta alle mafie è un problema anche culturale, di mentalità, di abitudini, non soltanto di giudici e di poliziotti. Bisognerebbe riformare il modo di fare politica, intesa come servizio. Bisognerebbe investire di più nell'istruzione e nella ricerca.
Qual è il ruolo della scuola nella difesa delle libertà democratiche?
Il ruolo della scuola è fondamentale. Legalità e cittadinanza sono valori fondamentali che si acquisiscono sui banchi e tra le mura domestiche. Gli esempi sono fondamentali perché contribuiscono a foggiare mentalità, convinzioni, modi di essere. Per poter agire nella legalità, bisogna essere soprattutto buoni cittadini, uomini e donne che non devono barattare diritti e bisogni con favori.
Giovanni Falcone ha detto che la mafia è destinata a finire come tutte le cose degli uomini. Da queste parole sono passati ormai degli anni. Secondo te, ci siamo vicini?
Purtroppo no. Le mafie non sono invincibili e come diceva Falcone possono avere una fine. Ma non certo per esaurimento biologico, per invecchiamento delle cellule. Per arginarli, e lo sottolineo, c'è bisogno dell'impegno di tutti, ma soprattutto della forza e della ricchezza della società civile.
Antonio Nicaso
Giornalista, scrittore, professore, consulente e ricercatore (Info: www.nicaso.com), Dottore in Scienze Politiche, docente all’Università di Middlebury nel Vermont (Usa) dove insegna “Identità e questione meridionale”. È membro del comitato scientifico del Nathanson Centre on Transnational Human Rights, Crime and Security (Centro Nathanson su Transnazionale per i diritti umani, Criminalità e Sicurezza) presso l’Università di York (Toronto) e del Governing Council dell’Alliance Against Contraband (Consiglio Direttivo di Alleanza Contro Il Contrabbando a Ginevra, Svizzera). È un pluripremiato giornalista, autore di best-sellers; i suoi libri sono stati tradotti in sei lingue ed è meglio conosciuto per aver pubblicato, per la prima volta, il “Codice della mafia”. Il più recente successo editoriale è “Fratelli di sangue”, scritto insieme al magistrato Nicola Gratteri per la Mondadori e già tradotto in diverse lingue.
DALLA VIVA VOCE
il dire e il fare delle donne nella lotta alle mafie
Comincia oggi il mio racconto di un mondo al quale mi sono avvicinata nella fase “matura” della mia passione educativa; un eufemismo da tradurre in un semplice “… ormai vicina al pensionamento dalla mia attività di insegnante”. Già da alcuni anni offro l’artigianalità della mia trentennale esperienza alla diffusione della cultura della legalità fra i giovani. Ma l’incontro, inaspettato dopo tanti anni, con l’amico Antonio Nicaso ha conferito a questa esperienza una positiva sistematicità. Tra i frutti più belli del mio impegno vi è l’incontro con quanti testimoniano la loro lotta alla criminalità e alle ingiustizie. Da qui il nome della rubrica che rimanda ad un dialogo con le tante donne che, con generosità e sofferenza, hanno scelto di intrecciare la propria vita alla testimonianza, fatta di parole e gesti, contro la violenza mafiosa e le ingiustizie. Un percorso dedicato all’ascolto che non avrebbe avuto inizio senza il prezioso contributo di Antonio Nicaso, giornalista e scrittore, tra i più autorevoli e conosciuti studiosi del multiforme “universo mafia”. Un dialogo che non poteva partire se non con lui.
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