Istat 2005 - Per le donne maggiori difficoltà nel lavoro, meno guadagni e tanta fatica in più. I dati dell'ultimo Rapporto letti in un'ottica di genere
Rosa M. Amorevole Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Settembre 2006
Uscito a fine maggio, il Rapporto Annuale ISTAT con sei corposi capitoli ha offerto un’analisi completa in merito alla congiuntura economica nel 2005, all’evoluzione del sistema delle imprese e della produttività, alle specializzazioni produttive e allo sviluppo locale, ai tempi di lavoro e valorizzazione delle competenze, alle disuguaglianze disagio e mobilità sociale e agli interventi e servizi sociali nel territorio. Le statistiche nazionali sono uno strumento essenziale per la conoscenza della situazione italiana, supporto indispensabile per le decisioni politiche. Le statistiche in un’ottica di genere permettono di vedere le differenze esistenti tra donne e uomini e di ripensare alle politiche affinché il loro impatto non sia discriminante su uno dei due generi.
Ci pare dunque importante riportare alcuni dati significativi frutto di quella statistica sociale che non sempre trova i fondi per garantirsi la costanza che vorremmo avesse.
Le ricerche relative all’uso del tempo, ai tempi di lavoro, alle flessibilità introdotte (solo per fare qualche esempio), e nello specifico le differenze rilevabili nei comportamenti di uomini e donne, ci permettono di trovare quella rilevanza statistica che – oltre ad avallare le tesi dell’esistenza di condizioni diverse di lavoro e di vita tra i generi – permetta una corretta valutazione dell’impatto delle politiche in un’ottica di genere.
Penalizzate nel lavoro
Quello che emerge è che sono le donne che continuano ad essere penalizzate sul fronte del lavoro, tanto da far decrescere il tasso di disoccupazione media l’anno fino al 7,7% (8,0% nel 2004) in virtù di fenomeni di rinuncia a intraprendere azioni di ricerca di un impiego proprio nella componente femminile (in particolare del Mezzogiorno) e tra le fasce giovanili.
Se i bassi livelli di istruzione determinano, più per le donne che per gli uomini tra i giovani a causa della loro maggiore propensione a rimanere fuori sia dalla formazione sia dal lavoro (il 43,6% delle giovani, contro il 13,6% dei maschi; il 32,2% per le giovani del sud contro il 16,4% dei maschi), l’analisi del tasso di attività tra i 20 e i 29 anni (superiore al 70% per gli uomini, inferiore al 56% per le donne) evidenzia un gap di genere.
Tale differenziale, se da un lato è influenzato da una maggiore propensione delle donne a proseguire gli studi, dall’altro testimonia la persistenza di modelli tradizionali basati sulla divisione dei ruoli familiari e la ricomparsa del fenomeno dello scoraggiamento.
La maggior incidenza di persone in cerca di lavoro fra le ragazze di 20-29 anni rispetto ai giovani coetanei, segnala infatti che – quando decidono di lavorare – incontrano maggiori difficoltà a trovare un’occupazione.
Flessibili, un po' troppo
In termini di flessibilità, il mercato del lavoro italiano si è avvicinato a quello degli altri paesi europei. Il Rapporto afferma che quote crescenti di lavoro flessibile coinvolgono prevalentemente i giovani e le donne. Tale flessibilità non necessariamente implica precarietà, si sostiene, specie quando esistono situazioni in cui il sostegno familiare attenua il disagio lavorativo e reddituale. Quando invece queste condizioni persistono nel tempo, coinvolgono segmenti deboli e si coniugano con aree di disagio familiari e territoriali, generando preoccupanti fenomeni di precarietà.
Le profonde modificazioni strutturali del mercato del lavoro hanno inciso sugli orari di lavoro e sui tempi di vita: sono solo poco più di un terzo, infatti, gli italiani che svolgono una prestazione lavorativa full-time dal lunedì al venerdì, in ore sostanzialmente diurne e senza turnazioni e/o straordinari.
Dal punto di vista dei tempi di lavoro, gli autonomi dedicano mediamente circa un’ora in più dei dipendenti. Il lavoro retribuito assorbe una quantità di tempo quotidiano maggiore per imprenditori, lavoratori in proprio e dirigenti. Questi ultimi, tra i lavoratori alle dipendenze, rappresentano la categoria con un bilancio del tempo quotidiano più simile a quello degli autonomi. Gli autonomi dispongono quindi di meno tempo per le attività non lavorative e dedicano anche meno tempo alla cura della famiglia.
I tempi delle donne
Le donne lavorano di più se non hanno carichi familiari, dunque se sono single o vivono con i genitori. Vivere con un partner e, soprattutto, avere figli comporta un aumento del tempo di lavoro familiare e una riduzione del tempo dedicato al lavoro retribuito. Per gli uomini si riscontra il contrario: sono gli occupati in coppia con figli a dedicare una parte più cospicua della propria giornata al lavoro retribuito.
Tuttavia, se la riduzione del tempo libero accomuna uomini e donne con posizioni di lavoro autonomo, la diminuzione del tempo di lavoro familiare riguarda invece essenzialmente gli uomini. Per le donne, infatti, il tempo per il lavoro familiare resta molto più rigido e difficilmente soggetto a compressione. Questi dati fanno emergere come poco si sia modificato sul versante della condivisione del lavoro di cura.
Un terzo delle famiglie italiane ha come principale percettore una donna, anche per effetto delle maggiori aspettative di vita della popolazione femminile. Si tratta prevalentemente di famiglie monoreddito, che contano su redditi da pensione. Viceversa, quando gli uomini sono principali percettori, le entrate sono costituite primariamente da redditi da lavoro con o senza altre fonti.
Redditi e autonomia
La fonte principale di sostentamento per i single giovani (con meno di 35 anni) è rappresentata nel 69,4% dei casi dal lavoro dipendente, nel 20,3% dal lavoro autonomo e nel 7,8% da altri redditi (prevalentemente trasferimenti di denaro ricevuti da altri nuclei familiari). Il 38,3% dei single giovani sono donne, la cui fonte principale è il reddito dipendente nel 71,1% dei casi.
Il fenomeno dei bassi redditi da lavoro è più frequente fra le donne (28% contro il 12% degli uomini), tra le persone con meno di 25 anni (36%), tra le persone con un grado di istruzione inferiore alla licenza media (32%) e tra i lavoratori che operano nel settore privato (21% contro il 5% degli impiegati del settore pubblico),
Oltre il 50% dei lavoratori a basso reddito opera nel settore dell’agricoltura, caccia e pesca e il 42% svolge professione non qualificate. Si tratta per lo più di braccianti agricoli e di operaie semiqualificate.
Confronto Nord / Sud
C’è un riavvicinamento in corso tra Nord e Sud per alcuni indicatori demografici (ad esempio la fecondità), ma i divari rimangono ampi con un Nord più vecchio e con più immigrati. In questo contesto, afferma il Rapporto, il legame tra l’affermarsi di nuovi modelli di vita familiare (le nascite fuori dal matrimonio passano dall’8,1% del 1995 al 14,9% del 2004), l’emergere di nuovi attori nella società (gli stranieri) e l’evoluzione recente della fecondità (in debole ripresa) è molto stretto.
Dal punto di vista dei servizi viene rilevata una minore offerta nelle regioni meridionali, dove le tipologie di assistenza sociale più diffuse sono i contribuiti economici per le famiglie. Nel Centro-Nord, invece, la forma di assistenza prevalente è quella dei servizi alla persona in strutture residenziali o semi-residenziali.
L’offerta di asili nido è superiore nelle regioni del Centro-Nord: frequentano l’asilo nido il 12% dei bambini Nord, mentre nel Sud solo il 2% dei bambini utilizza questo servizio.
Più che mai, le linee di azione per la promozione delle pari opportunità individuate nell’ambito della Strategia Europea per l’Occupazione, rappresentano il percorso obbligato per promuovere il cambiamento: affrontare e superare i differenziali sul versante retributivo e dei livelli di occupazione e disoccupazione; individuare e applicare le buone prassi che permettano la conciliazione fra vita familiare e professionale (attraverso la flessibilità positiva dell’organizzazione del lavoro, la condivisione delle responsabilità di cura tra uomini e donne, l’aumento e l’accessibilità di servizi di cura di qualità) innanzitutto. Le politiche hanno la necessità di integrare le questioni relative alla disuguaglianza di genere in tutte le dimensioni delle decisioni per l’occupazione, mettendo in pratica quel mainstreaming (termine di non facile comprensione) che potrà essere valutato, nel suo impatto, da puntuali statistiche che ne evidenzino migliori valori quantitativi e qualitativi.
(27 settembre 2006)
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