Donne al fronte - Chi erano e cosa facevano? La traccia di una storia femminile gloriosa e dimenticata parte da una caserma, l’unica in Italia, intitolata ad una donna
Marzocchi Chiara Lunedi, 26/10/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2009
La storia delle Portatrici Carniche è ancora poco conosciuta. Solo gli abitanti della Carnia hanno memoria di quelle donne straordinarie e ne sono orgogliosi. Come orgogliosi sono gli alpini che erano di stanza alla Caserma Maria Plozner Mentil, unica caserma in Italia intestata ad una donna e ora purtroppo abbandonata.
Ma chi sono le Portatrici Carniche? E cosa hanno fatto di così importante per meritarsi parole di stima e riconoscenza da parte del Generale Lequio, comandante del settore “Carnia” durante la Prima Guerra Mondiale?
Cominciamo con il dire che la Carnia (Cjargne in friulano) è una regione storico – geografica del Friuli Venezia Giulia settentrionale, al confine con l’Austria, compresa nella provincia di Udine. E’ una regione montuosa, occupata in gran parte dalle Alpi Carniche, impervia e isolata, anche per le svantaggiose condizioni climatiche, caratterizzate da venti impetuosi e da forte piovosità, difficile da domare anche per i suoi tenaci abitanti.
La storia della Portatrici Carniche si colloca tra l’Agosto del 1915 e l’Ottobre del 1917. In quel periodo l’Esercito Italiano era così schierato: 2 Armate (1° e 4°) sul fronte Trentino; 2 Armate (2° e 3°) sul fronte giulia; un Gruppo Speciale al centro (XII Corpo d’Armata) in Carnia e in Val Fella; una riserva d’Esercito tra Desenzano, Verona e Bassano. Grande importanza aveva il fronte che correva dalle sorgenti del Piave a quelle del Natisone, comprendente le valli dell’alto Tagliamento, del Degano, del But e del Fella. Questa era la Zona Carnia, formata da 31 battaglioni, ed era talmente vitale da essere posta alle dirette dipendenze del Comando Supremo. Il valore di tale Zona consisteva nel fatto che, realizzando uno sfondamento a Passo Monte Croce Carnico, l’Esercito austriaco avrebbe avuto via libera nelle valli del But e del Chiarsò, considerate le porti principali per l’invasione dell’Italia. Tale consapevolezza l’aveva anche lo Stato Maggiore di Vienna, tanto è vero che in tutti i piani operativi – ancora in tempo di pace – gli austriaci attribuivano un’importanza strategica alla Zona Carnia.
E’ bene sottolineare che l’attività della Portatrici s’interruppe nel 1917 quando, il 27 ottobre, i difensori di questo fronte caldo dovettero ritirarsi lasciando le posizioni, che mai avevano perduto, perché aveva ceduto il fronte dell’Isonzo difeso dalla 2° Armata ed i soldati di Carnia dovettero ripiegare per non essere presi alle spalle. Con loro dovettero fuggire anche le Portatrici.
La forza media presente in questi territori si aggirava intorno ai 10-12 mila uomini. Essi dovevano essere vettovagliati ogni giorno, riforniti di munizioni, medicinali, attrezzi vari e così via. I magazzini ed i depositi militari erano dislocati in fondo valle e non c’erano rotabili che consentissero il transito di automezzi né di carri trainati da animali. L’unico sistema per raggiungere la prima linea del fronte, in alta montagna, era il trasporto a spalla seguendo sentieri o mulattiere. Ma dato che per effettuare questi rifornimenti non si potevano sottrarre militari alla prima linea senza danneggiare l’efficienza operativa, il Comando Logistico della Zona e quello del Genio furono costretti a chiedere aiuto alla popolazione civile. Tutti gli uomini validi erano alle armi, rimanevano a casa solo donne, vecchi e bambini.
La situazione era davvero critica e le donne non esitarono a raccogliere il disperato invito. Si misero quindi a disposizione dei Comandi Militari: “ Anin”, dicevano “senò chei biadaz ai murin encje di fan” (“andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame”).
Venne così costituito un Corpo di ausiliarie formato da donne di età compresa tra i 15 e i 60 anni, della forza pari a quella di un battaglione di circa 1000 soldati: nascevano le Portatrici Carniche.
Esse non furono mai militarizzate, cioè non furono costrette al lavoro per forza di legge e soggette alla disciplina militare. Ma la disciplina ferrea che si autoimponevano durante le marce fu delle più esemplari.
Furono munite di un libretto personale di lavoro sul quale i militari addetti ai vari magazzini segnavano le presenze, i viaggi compiuti, il materiale trasportato in ogni viaggio; furono anche dotate di un bracciale rosso con stampigliato lo stesso numero del libretto e con l’indicazione dell’unità militare per la quale lavoravano. Per ogni viaggio ricevevano il compenso di lire 1,50 centesimi, pari più o meno a 3,50 euro, che venivano corrisposti mensilmente. In caso di emergenza, potevano essere chiamate a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Dovevano presentarsi all’alba di ogni giorno presso i depositi ed i magazzini nei fondo valle per ricevere in consegna il materiale e caricarlo nella gerla.
La gerla (zèi – pronuncia gei - in carnico) è una cesta di legno o vimini intrecciati a forma di tronco di cono rovesciato, aperto in alto, usata per trasportare materiali vari: fieno, legna ma anche formaggio e via dicendo. E’ munita di due spallacci di fusti di nocciolo per poter essere portata sulle spalle.
Quando le gerla erano state riempite di munizioni ed altri generi indispensabili alla sopravvivenza dei soldati, arrivavano a pesare anche più di 40 kg. A quel punto le donne partivano in gruppi di 15-20 e, dopo pochi chilometri a fondo valle, si inerpicavano sulle montagne dirigendosi ogni gruppo, a raggiera, verso la linea del fronte. Dovevano superare dislivelli che andavano dai 600 ai 1200 metri, vale a dire dalle 2 alle 5 ore di marcia in ripida salita. D’inverno il viaggio era ancora più proibitivo, reso difficoltoso dalla neve che arrivava fino alle ginocchia.
Giunte a destinazione, scaricavano il materiale, sostavano qualche minuto per riposare, per far sapere agli alpini di reclutamento locale (battaglioni Tolmezzo e Val Tagliamento) le novità del paese e per consegnare loro la biancheria fresca di pulito ritirata, da lavare, nei viaggi precedenti.
Dopo di che si incamminavano lungo la discesa per il ritorno in famiglia, dove le attendevano i vecchi, i bambini, il governo della casa e della stalla. L’indomani all’alba si ricominciava tutto daccapo.
E così per 26 mesi.
Un gruppo di Portatrici fu anche dislocata permanentemente, alloggiata in baracche poco dietro al fronte, a disposizione del Genio militare. Erano impiegate per il trasloco dei materiali necessari ai “lavori del campo di battaglia”: portavano pietrisco, lastre, cemento, legname ed altro per la costruzione di ricoveri, postazioni arretrate e per il consolidamento di mulattiere e sentieri.
Capitava anche che, durante il viaggio di ritorno, veniva loro chiesto di trasportare a valle in barella militari feriti o uccisi. I feriti venivano poi avviati con le ambulanze agli ospedali da campo; i morti venivano seppelliti nel Cimitero di guerra di Timau, dopo che le Portatrici stesse avevano scavato la fossa.
Il 3 giugno del 1934 la sua salma fu traslata solennemente al cimitero di guerra di Timau da dove venne definitivamente trasferita #foto5sx#al locale Tempio Ossario, vicina ai resti di 1763 soldati caduti combattendo sul sovrastante fronte. Nel 1955 venne intestata a suo nome la caserma degli alpini di Paluzza: unica caserma italiana intestata ad una donna.
Inoltre, nel gennaio del 1969, il Senatore Giulio Maier, originario di Paluzza, presentò al Senato un disegno di legge perché fossero estesi alle Portatrici della Carnia i benefici previsti per i combattenti della guerra 1915-18 dalla legge 18 marzo 1968, cioè la concessione della medaglia ricordo in oro, della onorificenza dell’Ordine di Vittorio Veneto e dell’assegno annuo vitalizio di lire 60.000 (portato poi a lire 150.000). Quel disegno di legge è poi diventato legge dello Stato.
L’ultima portatrice rimasta in vita, Lina Della Pietra, è morta nel 2005, senza che alcuna corona o messaggio da parte degli amministratori locali o delle autorità politiche venisse recapitato ai familiari.
Ormai nessuno si ricorda più di loro, del loro sacrificio e del loro valore. Ma non sono morte nell’anonimato. Molte di loro prima di morire hanno voluto che sulle lapidi, dopo il nome, fosse incisa la frase: “Cavaliere di Vittorio Veneto”. Quattro parole che conferiscono nobiltà e dignità effettive a tutta loro vita e riconoscono il grande coraggio che hanno dimostrato.
Bibliografia
1. “Le Portatrici Carniche”, libretto a cura dell’ Associazione Amici delle Alpi Carniche – Timau;
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