Le piccole figlie delle Ande, dove migrare è una sconfitta
Perù - Miseria e ignoranza rendono il lavoro minorile endemico e strutturale. Una realtà radicata, tra tradizione e necessità, che riguarda soprattutto le bambine
Di Pietro Maria Elisa Domenica, 16/06/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2013
Le piccole peruviane crescono tra casse di frutta e verdura, pentole e animali più grandi di loro. Le vedi appese alle madri in fagotti sgargianti, con vestiti sdruciti, scalze in alta montagna. Bronci impolverati, nasini col moccio. Chilometri a piedi per andare a scuola. Se paghi, posano e sorridono! Uno spicciolo per una bugia: un sorriso faticoso, meccanico, occhi che non fanno pendant.
Trecce nere, pelle scura, viso indio e tratti antichi suscitano ancora discriminazioni e pregiudizi razzisti. Le figlie delle Ande scendono in città, ma restano eterne migranti in cerca di fortuna. Cedute per false promesse di vita migliore o vendute per saldare debiti, sgobbano dai 5 anni di età troppe ore al giorno, per poco o niente, non solo come domestiche. Potreste imbattervi nella stessa niòa ai mercati generali all’alba, più tardi in piazza a vendere caramelle, poi a casa come sguattera, infine in cantina senza cena per un piatto rotto, una svista nella spesa o una zuppa stracotta. Può impazzire di solitudine se, come tanti nativi (oltre 45%), parla una lingua indigena, ma obbedisce a ordini in castigliano.
Un flusso continuo di muchachitas (150mila/anno) lascia villaggi ad alta quota, dove famiglie ai limiti della sussistenza s’indebitano per crescere molti figli non voluti. Arrivate in città (Lima, Arequipa e Cuzco) s’improvvisano domestiche per un posto dove mangiare e dormire, anche in periferie caotiche e fatiscenti, senza servizi essenziali, dove oltre la metà della gente soffre di disoccupazione e lavoro nero. Migrare non significa migliorare: è una sconfitta. Nei curriculum: disgregazione familiare, personalità calpestate, traumi indelebili. Smarriscono documenti e tracce per innumerevoli trasferimenti di famiglie originarie e ospitanti, ma anche non accidentalmente. Se non ricordano i dati anagrafici, la polizia le identifica sommariamente e le ribattezza con nomi benaugurali di attrici famose o sante popolari.
Nella Valle Sacra è emergenza: l’area più ricca e turistica del paese è in coda per sviluppo umano. Nelle Ande povertà, analfabetismo femminile (il triplo dei maschi) e denutrizione cronica infantile s’impennano oltre il 50%, la mortalità materna è la più alta in Sudamerica.
Il lavoro minorile è perverso, occulto, incontrollabile. La clandestinità dell’economia informale preclude regole e diritti, né consente stime adeguate del fenomeno per l’assenza di dati ufficiali completi, omogenei e aggiornati. In famiglia o alle dipendenze di terzi, retribuito o no, anche se non pregiudica la salute o non ostacola la scolarità, non è una libera scelta. La discriminazione di genere penalizza le femmine rispetto ai coetanei anche nella paga: meno della metà degli adulti a parità di lavoro. La maggioranza lavora in agricoltura (40%), allevamento e pastorizia. Se ha un lavoro stagionale, al termine si camuffa da maschio e si ricicla nell’edilizia a portar pesi e far mattoni. La seconda scelta è commercio (20%) o artigianato. Il lavoro domestico (19%) è svolto fino al 90% da bimbe, metà sotto i 13 anni, anche 16 ore al giorno. Tanti lavori di strada, ambulanti e mendicanti, infine lavori illeciti, illegali e pericolosi (1 su 4) in miniere, bordelli, industria del porno.
Rare le giovani colte e intraprendenti: la scuola non funziona, il primato di diserzione è femminile e l’istruzione pubblica peggiora per l’esiguità delle risorse dedicate. Se non hai la fortuna di frequentare scuole cattoliche private, le più costose e prestigiose, il destino è l’esclusione. Se lavori, quando non rinunci alla presenza ti addormenti sul banco. L’obbligo scolastico non è controllato: i genitori ignorano i richiami di legge e le autorità lasciano perdere. Abbandoni, assenze e bocciature per motivi familiari, salute e lavoro sono altissimi tra le adolescenti (23%), avviate a mestieri pesanti o tenute a casa dai genitori per evitare maternità precoci.
Sostenere l’abolizione del lavoro minorile significa spezzare le catene del sottosviluppo denunciate dagli operatori del settore. Le cause sono endemiche e strutturali: miseria, ignoranza e fattori socioculturali che lo rendono una pratica radicata, a metà tra tradizione e necessità. Tutta la società peruviana si alimenta di lavoro minorile e riproduce la sequenza: povertà, ignoranza, lavori poco qualificati e molti figli, soprattutto nelle zone rurali.
Molti cadono nell’errore di rivendicare il lavoro minorile come diritto. Politici e imprenditori sono certi che favorisca concorrenza e sviluppo nei paesi emergenti, grazie a minori a basso costo che integrano la forza lavoro. Per la povera gente sono un supporto vitale, rinunciarvi significa ridurre il reddito familiare più del 20%. Movimenti organizzati di minori difendono il diritto ad esperienze lavorative, ma con regole garantiste (dignità, adeguatezza all’età, compatibilità con gli obblighi scolastici).
Il Perù vive boom economico paragonabile a, Cina e India, eppure mantiene il primato dell’occupazione minorile in America Latina, con più di 2 milioni di piccoli lavoratori e un’irrisolta tensione tra diritto interno e internazionale. La pietra miliare resta la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia (1989), che il Perù ha ratificato nel 1990, ma vanificato nel 1992 col Codice dell’infanzia e dell’adolescenza, che considerava legale il lavoro del minore di 12 anni. È del 2001 la ratifica tardiva delle Convenzioni OIL 138/1976 e 182/2000, tuttora di difficile attuazione considerando le norme del nuovo Codice dell’Infanzia e dell’Adolescenza introdotto nel 2000 e modificato nel 2001, ancora l’unico in Sudamerica a riconoscere il diritto al lavoro dell’adolescente. In pratica il limite generale per l’avvio al lavoro è di 15 anni, ma è piuttosto flessibile: in Perù e in altri pesi arretrati è derogabile a 14 e in certi casi persino a 12, con norme e limiti discutibili anche per lavori illeciti e pericolosi. Ci sono progressi rispetto agli obiettivi globali del millennio su mortalità infantile e materna, istruzione, parità di genere ed empowerment femminile, ma gli indicatori nazionali rilevano ancora gravi diseguaglianze. Le peruviane non trionfano su carri colorati come per la festa di Santa Rosa da Lima, patrona del Perù e delle Americhe, quando indossano il saio della monaca, suonano in uniforme nelle bande e rappresentano in divisa ogni scuola e mestiere, come se fossero davvero le risorse più promettenti della comunità.
Gli esperti dichiarano che istruire bambine e adolescenti è forse l’investimento più proficuo nei paesi arretrati, perché ha effetti positivi sulle comunità: le famiglie sono meno numerose, più sane e istruite, matrimoni tra minori, gravidanze indesiderate, lavoro minorile, malattie e mortalità infantile calano, scolarizzazione, reddito pro capite e qualità della vita crescono, le pressioni sociali si allentano e tutti stanno meglio. Maria Arana, autrice peruviana naturalizzata negli USA, scrive che se una ragazza è così motivata a spendere quel che guadagna con fatica per comprare libri e imparare, può cambiare il futuro e produrre cambiamenti colossali. Allora bisogna integrare gli investimenti locali e aprire i minori a nuove opportunità con forme di sostegno, istruzione, formazione, case famiglia, campagne per la consapevolezza dei diritti, divulgazione della casistica con attenzione alle bambine, come le radio peruviane stanno facendo. Non si tratta di rincorrere l’utopia della felicità, ma di coniugare libertà, sviluppo ed equità con l’impegno a rimuovere gli ostacoli che intralciano solidarietà, promozione umana e culturale.
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