Lunedi, 16/07/2018 - Dall’esame di tre trasmissioni, mandate in onda negli ultimo tre mesi dall’azienda che gestisce il servizio televisivo pubblico, è possibile approntare una valutazione sull’uso che la Rai faccia delle parole con cui narra la vita delle donne. Nel maggio scorso alcune attiviste dei social, creatrici su Facebook del Gruppo d’ascolto Rai, indirizzarono una lettera aperta alla Presidente Maggioni per evidenziare alcuni messaggi che l’ente, da lei rappresentato, dovrebbe evitare di proporre e divulgare.
La trasmissione, su cui si era incentrata l’attenzione delle attiviste, era la prima puntata della fiction Il capitano Maria, connotata da “uno scenario di luoghi comuni” sull’universo femminile in grado di diffondere “messaggi nocivi, errati e fuorvianti”. Ciò in netto contrasto con le Linee guida editoriali per la produzione della fiction Rai, in cui è messo in evidenza che invece l’azienda debba approntare "Un’offerta che dovrà sempre essere improntata al rispetto della dignità della persona ed alla non discriminazione e che dovrà contribuire al superamento degli stereotipi culturali attraverso una rappresentazione veritiera della società civile, orientata al recupero di identità valoriali e rispettosa delle diverse sensibilità”.
La fiction in questione a detta delle scriventi contraddiceva anche il nuovo Contratto che regolamenta il servizio pubblico radiotelevisivo e digitale per i prossimi 5 anni, affidato alla Rai in base ad una convenzione rinnovata nel 2017 per 10 anni. Contratto che, ad esempio, prevede all’art. 9, comma 2 lettera a) l’impegno “a promuovere la formazione tra i propri dipendenti, operatori e collaboratori esterni, affinché in tutte le trasmissioni siano utilizzati un linguaggio e delle immagini rispettosi, non discriminatori e non stereotipati nei confronti delle donne”. Le attiviste del Gruppo d’ascolto Rai si erano allora conseguentemente chieste se, alla luce dei rilievi mossi alla prima puntata della serie televisiva Il capitano Maria nella missiva indirizzata alla Presidente Maggioni, la Rai operasse un controllo preventivo sui programmi per verificare se fossero “o meno in linea con i principi e gli impegni presi”.
Trascorse un mese ed una puntata della Vita in diretta si connotò per l’uso frequente e continuo del termine baby squillo, quando invece il suo utilizzo è un’inammissibile violazione della Carta di Treviso, un protocollo che impegna sin dal 1990 sia l’Ordine dei giornalisti, che la Federazione nazionale della stampa italiana e Telefono Azzurro. Il suo scopo è disciplinare i rapporti tra informazione ed infanzia, salvaguardando il diritto di cronaca, ma nel contempo rendendo tutti i mezzi d'informazione responsabili nella costruzione di una società che rispetti appieno l'immagine dei bambini ed adolescenti.
La Rai, consentendo l’uso del termine baby squillo, correrebbe conseguentemente il rischio di criminalizzare le minorenni mentre i veri colpevoli sono gli adulti fruitori del corpo delle adolescenti, che sfruttate sono soggetti vulnerabili ed in quanto tali suscettibili di tutela anche da parte dell’azienda televisiva pubblica. Occorre essere particolarmente attenti ad un linguaggio adeguato nella descrizione di fatti di cronaca che riguardino i minori, in modo tale che il correlato racconto sia di loro rispettoso.
Difatti parole sbagliate, quali quelle che associano i termini prostituzione/prostituta ad una minore determinano ulteriormente che venga ritenuto normale lo stupro di una adolescente o di una bambina, che invece sono soggetti non del tutto consapevoli ed incapaci di esprimere un consenso pienamente cosciente, così come non sono in grado di comprendere appieno le conseguenze a cui vanno incontro quando si trovano a vivere determinate circostanze.
Nel corrente mese, invece, ci si è imbattute in un cartello esibito durante la trasmissione Quelle brave ragazze, in cui per delucidare sulle ragioni della “litigiosità“ delle donne se ne sono elencati gli eventuali motivi, ossia “Il Dna”, “Vecchi stereotipi che sopravvivono”, “Dimenticano i torti subiti” e “Sbalzi umorali in quei giorni lì”. L’ultima opzione ricorda tanto un luogo comune di tempo immemore, che addirittura indusse i parlamentari italiani del dopoguerra ad escludere le donne dalla magistratura perchè “in quei giorni lì” non avrebbero potuto sentenziare obiettivamente. I tre ultimi mesi di programmazione dell’azienda televisiva pubblica renderebbero così evidente che esistano trasmissioni ove sono presenti i consueti stereotipi sulle donne, come nella prima puntata del Capitano Maria, gli abituali pregiudizi sul loro conto, come nella trasmissione Quelle brave ragazze, o peggio ancora palesi violazioni di regole deontologiche alla base della professione del giornalista, come per l’utilizzo del termine baby squillo.
Sarebbe auspicabile una Rai amica delle donne, anche delle più piccole, perché la missione del servizio televisivo pubblico deve tenere conto delle esigenze e sensibilità dell’universo femminile, che potrebbero essere duramente colpite da parole errate in grado di rappresentarle male e di produrre oltretutto ferite non facilmente sanabili.
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