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Le parole innamorate della musa inquieta

Le parole innamorate della musa inquieta

Antonia Pozzi - Oltre che poetessa la Pozzi è stata una fine intellettuale, traduttrice e fotografa. Muore giovanissima, suicida, nel 1938. A Milano un ciclo di iniziative per valorizzare questa straordinaria figura di donna e di artista

Benassi Luca Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2009

Antonia Pozzi nasce il 13 febbraio 1912, figlia dell’avvocato Roberto Pozzi e della contessa Lina, originaria di una famiglia di proprietari terrieri. Cresce in un ambiente agiato, colto e raffinato, dedito alle letture di autori italiani e stranieri, alla musica e alla frequentazione della Scala. Durante gli studi liceali la Pozzi vive un’intensa passione per il suo professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi, che la introduce alla letteratura e alla poesia, ma la scintilla dell’amore è subito soffocata dai genitori: il sentimento della perdita e della rinuncia, da quel momento, colorerà di scuro il cuore della poetessa. Terminati nel 1930 gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia della Statale di Milano, dove stringe amicizia con Vittorio Sereni, Remo Cantoni e Dino Formaggio. Frequenta il corso di estetica, tenuto da Antonio Banfi, e si laurea con lui con una tesi sulla formazione letteraria di Flaubert nel 1935, che verrà pubblicata pustuma. Inizia a frequentare con assiduità la montagna, viaggia in Grecia, Austria, Sicilia, Africa, Inghilterra (inviata dal padre per allontanarla dal Cervi). Scrive poesie, pagine di prosa e di diario; traduce Hausmann, abbozza un romanzo sulla storia lombarda. Inzia l’attività di fotografa, che insieme alla poesia rimane il luogo più vero della sua vocazione artistica. Nel 1937 comincia l’attività d’insegnante presso l’Istituto Tecnico Schiapparelli; si divide fra l’impegno sociale e l’attività letteraria e fotografica, le collaborazioni con “Corrente” ed altre riviste, sempre alla ricerca di una via che segni l’uscita dall’inquetudine esistenziale, dal dramma della perdita dell’amore, alla ricerca di una fede lambita e mai trovata. Si toglie la vita a Milano nel 1938, a soli ventisei anni. La raccolta di poesia “Parole” (in prima edizione nel 1939) e gli altri scritti vengono pubblicati postumi. L’esperienza di Antonia Pozzi è una delle più intense e vive del Novecento. All’intellettuale, acuta conoscitrice delle letterature inglese, francese e tedesca, traduttrice, fotografa, si unisce una vena poetica profonda e genuina, una poetessa inquieta e naturale quanto consapevole nell’impastare la lingua della poesia. Montale, nella prefazione a “Parole”, avvertiva i lettori sull’assenza di sentimentalismo, su quella patina opaca, comune a chi mette in poesia la sofferenza, che nella Pozzi lascia il posto alla ricerca della verità, alla purezza della parola cristallina e dura come la roccia delle amate montagne, spesso oggetto dei suoi testi.
Scrive Antonia Pozzi nel suo “Diario”, il 4 febbraio 1935: “Il mio disordine. È in questo: che ogni cosa per me è una ferita attraverso cui la mia personalità vorrebbe sgorgare per donarsi. Ma donarsi è un atto di vita che implica una realtà effettiva al di là di noi e invece ogni cosa che mi chiama ha realtà soltanto attraverso i miei occhi e, cercando di uscire da me, di risolvere in quella i miei limiti, me la trovo davanti diversa e ostile. […] Anche in me gli schemi si dissolvono e nasce il realismo umano. O piuttosto vorrebbe nascere e non può, in nessuna forma della realtà può esprimersi, come un pianto che non trova gli occhi per cui sgorgare, un sorriso che non ha volto in cui aprirsi. Rifiuti, da tutta la realtà, ad ogni passo. E ad ogni passo, nuove ricerche per una realtà che non esiste. E che non deve esistere. Di questo la coscienza mi avvisa. Donarsi è abdicare alla propria personalità. [...] Desiderare di donarsi non può non essere la suprema delle aspirazioni di una creatura; ma volersi ad ogni costo donare quando del rifiuto delle cose si ha già avuta coscienza, è uno sconfinare illecito, un proiettarsi in gigantesche fantasie che non hanno più realtà di un'ombra nera sul muro.”
Al sentimento della perdita dell’amore, di una vita ideale impossibile da fondersi con la realtà quotidiana diversa e ostile, si unisce il sentimento di un donarsi agli altri che trova la sua massima espressione nella poesia, nella capacità di condensarsi in un’immagine folgorante –spesso da leggere insieme alle fotografie – nello sgorgare sorgivo di versi dal nitore classico, sempre venati dal sentimento del dolore vissuto con l’intensità del battito del cuore. Si tratta di una poesia tra le più vere e coraggiose possa vantare il nostro Novecento, capace di sfidare sofferenza e consuetudini, limiti e negazioni, frutto giovane e mai acerbo di una donna che ha pagato con la vita il suo essere poeta.


"… e di cantare non può più finire…": un convegno in tre giornate nel 70° anniversario della morte di Antonia Pozzi.

In occasione del settantesimo anno dalla morte di Antonia Pozzi (1912-1938), l'Associazione Phos onlus ha promosso una serie di iniziative volte a diffondere la conoscenza di questa straordinaria figura di donna e di artista. Evento culminante, dopo varie manifestazioni, è stato il convegno che si è svolto presso l’Università degli Studi di Milano, a cura dei Dipartimenti di Filologia Moderna e Filosofia (con il contributo della Regione Lombardia e della Provincia di Milano).
Il convegno si è articolato in tre giornate. Lunedì 24 novembre sono intervenuti Fulvio Papi, Gabriele Scaramazza, Onorina Dino, Graziella Bernabò, Ludovica Pellagatta con il coordinamento di Silvia Morgana. Martedì 25 novembre si sono alternati Claudio Milanini, Liana Nissim, Gabriella Rovagnati, Stefano Raimondi, Chiara Cappelletto con il coordinamento di Claudio Milanini; mentre nel pomeriggio, sotto la presidenza di Liana Nissim si sono ascoltati gli interventi di Cristiana Dobner e Eugenio Borgna. I lavori si sono conclusi mercoledì 26 novembre con gli interventi di Tiziana Altea, Michele Beatrice Ferri, Ida Travi, Giuseppe Sergio, Matteo Mario Vecchio con il coordinamento di Gabriella Rovagnati, e sotto la presidenza di Graziella Bernabò, Adriana Mormina, Marina Santini e Gemma De Magistris.
Il convegno, oltre all’intervento dei numerosi studiosi, ha visto la realizzazione di uno spettacolo teatrale a cura dell’attrice Elsa Fonda (martedì 25), la proiezione di alcune anticipazioni dal film inedito su Antonia Pozzi ‘Poesia che mi guardi’ per la regia di Marina Spada, produzione di Renata Tardani per Miro Film (mercoledì 26) e una mostra fotografica a cura di Ludovica Pellegatta e Filippo Bianchi (lunedì 24).
Graziella Bernabò, studiosa e biografa di Antonia Pozzi fin dagli anni Ottanta, e tra i responsabili scientifici del convegno, ha commentato l’evento: “l’opera di Antonia Pozzi è talmente ricca sul piano dello stile e delle forme che ha consentito un’analisi e uno studio condotti con rigore scientifico attraverso diversi approcci metodologici. Per questo al convegno, risultato di due anni di lavoro di preparazione, saranno presenti intellettuali di diversa estrazione: letterati, medici, teologi, interni ed esterni all’ambiente accademico, uomini e donne, cattolici e laici. Non è stato trascurato un approccio artistico all’opera della poetessa milanese: saranno quindi presenti fotografe, registe, attrici. Si tratta di un tentativo, sicuramente non esaustivo, di mettere in luce nel suo complesso l’attività della Pozzi poetessa, fotografa e intellettuale.”




Brughiera

I

Accoccolato tra le pervinche
sfuggi
la furia ansante dei cavalli
e l'urlo
dei cani al sole.

Tu sei come il ramarro verde e azzurro
che del proprio rumore si spaura
e hai cari
questi ciliegi appena in fiore, quasi
senz'ombra.

Tenui
profili di colline alle tue ciglia:
e all'orecchio
così curvo sull'erica riarsa
a quando a quando il rombo
dei puledri lanciati per la piana.


Certezza

Tu sei l’erba e la terra, il senso
quando uno cammina a piedi scalzi
per un campo arato.
Per te annodavo il mio grembiule rosso
e ora piego a questa fontana
muta immersa in un grembo di monti:
so che a un tratto
- il mezzogiorno sciamerà coi gridi
dei suoi fringuelli –
sgorgherà il tuo volto
nello specchio sereno, accanto al mio.

9 gennaio 1938


La roccia

Trine di betulla
nella valle
i pensieri –
ma ieri
quando soli erravamo
sulla nuda montagna –
il taglio
delle rupi più eccelse
era il disegno
della mia forza - in cielo.
E non parlare di rovina
tu cuore –
fin che uno spigolo nero a strapiombo
spacchi l'azzurro
e una corda s'annodi all'anima
bianca
come le ossa del falco
che sul torrione più alto
regalmente ha voluto
morire.

8 settembre 1933


La vita

Alle soglie d'autunno
in un tramonto
muto

scopri l'onda del tempo
e la tua resa
segreta

come di ramo in ramo
leggero
un cadere d'uccelli
cui le ali non reggono più.

18 agosto 1935

Lieve offerta

Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera
come le estreme foglie
dei pioppi, che s’accendono di sole
in cima ai tronchi fasciati
di nebbia –

Vorrei condurti con le mie parole
per un deserto viale, segnato
d’esili ombre –
fino a una valle d’erboso silenzio,
al lago –
ove tinnisce per un fiato d’aria
il canneto
e le libellule si trastullano
con l’acqua non profonda –

Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera,
che la mia poesia ti fosse un ponte,
sottile e saldo,
bianco –
sulle oscure voragini
della terra.

5 dicembre 1934


Nevai

Io fui nel giorno alto che vive
oltre gli abeti,
io camminai su campi e monti
di luce –
Traversai laghi morti - ed un segreto
canto mi sussurravano le onde
prigioniere –
passai su bianche rive, chiamando
a nome le genziane
sopite –
Io sognai nella neve di un'immensa
città di fiori
sepolta –
io fui sui monti
come un irto fiore –
e guardavo le rocce,
gli alti scogli
per i mari del vento –
e cantavo fra me di una remota
estate, che coi suoi amari
rododendri
m'avvampava nel sangue –

1° febbraio 1934


Voce di donna

Io nacqui sposa di te soldato.
So che a marce e a guerre
lunghe stagioni ti divelgon da me.

Curva sul focolare aduno bragi,
sopra il tuo letto ho disteso un vessillo –
ma se ti penso all’addiaccio
piove sul mio corpo autunnale
come su un bosco tagliato.

Quando balena il cielo di settembre
e pare un’arma gigantesca sui monti,
salvie rosse mi sbocciano sul cuore;
Che tu mi chiami,
che tu mi usi
con la fiducia che dai alle cose,
come acqua che versi sulle mani
o lana che ti avvolgi intorno al petto.

Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle.

18 settembre 1937

(17 febbraio 2009)

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