Martedi, 09/05/2017 - E’ ormai noto: la terza parola-chiave scelta da Matteo Renzi nel discorso di reinsediamento alla testa del suo partito è mamme. “Abbiamo portato le mamme a occuparsi di politica – ha chiosato il segretario-. Ora la politica si occupi di loro. E’ la questione politica del nostro tempo, che nel 2017 la maternità possa essere considerata un ostacolo è assurdo”. Molto interessanti mi sono parse le riflessioni fatte sull’argomento da Simona Sforza, che conosce il Pd dall’interno, e da Lorella Zanardo.
Entrambe mettono l’accento sulla (non ingenua) scelta delle parole usate nel fraseggio di Renzi, particolare non irrilevante per un leader politico fin troppo attento al simbolico nella costruzione degli eventi e della comunicazione mediatica, come insegnano gli allestimenti e gli slogan delle varie Leopolde, per esempio.
La maternità è un’esperienza straordinaria ma basta un niente per ritrovarsi nella melassa dei luoghi comuni. Se si volevano omaggiare le donne (anche) come madri perché non citare Roland Barthes: ‘Il tempo in cui mia madre ha vissuto prima di me: ecco cos’è, per me, la Storia’. Troppo?
Scegliere la parola mamme piuttosto che quella donne, infatti è una scelta politica precisa: identifica ambiti e orizzonti tematici, indica soggetti, delinea spazi e visioni. Se infatti è assolutamente vero che in Italia la maternità è ancora un ostacolo per la realizzazione dei progetti lavorativi e di carriera per le donne (mentre la paternità non lo è per gli uomini) è altrettanto vero che l’effetto della parola mamme sparata sul megaschermo di una convention politica non può che essere un boomerang negativo, persino pensando che l’intento sia benevolo.
La nostra è una cultura nella quale non esiste una parola che indichi la scelta di non riprodursi: l’unico termine per indicare l’assenza di figli e figlie è un vocabolo il cui senso è carico di dolore e assenza, cioè sterile, locuzione che diventa etica quando indica, contrapposta a fecondo, l’assenza di vita, gioia, creatività, ricchezza. Nel percorso scolastico vissuto dalla mia generazione, dalla metà degli anni ’60 in poi, le poche figure femminili che ricordo erano citate per valorizzarne, il più delle volte, la fedeltà al modello di madri protettive e orgogliose. Nella mia memoria aleggia Cornelia, la madre dei Gracchi, (la troverete nominata in questo modo in ogni enciclopedia), memorabile perché disse dei suoi due figli maschi Tiberio e Caio Gracco: ”Ecco i miei gioielli”. Dell’unica figlia femmina rimasta in vita (Cornelia partorì ben dodici volte) sappiamo solo che si chiamava Sempronia, (evidentemente non così importante da annoverare tra i preziosi di famiglia) e, se non fosse stato per i due virgulti, Cornelia sarebbe l’ennesima donna inghiottita dall’oblio della storia ufficiale.
Nel suo libro L’aggressività femminile Marina Valcarenghi scrive, rispetto all’ipertrofica mitologia della madre orgogliosa e oblativa: ”Le tante Leto, le Niobe, le così numerose madri dei Gracchi e tutte le loro emule smetteranno di nuocere quando potranno esistere in prima persona e non quando saranno costrette in altre forme, forse oggi meno fastidiose per l’immaginario maschile, di dipendenza. E gli uomini, da parte loro, dovranno imparare ad amare prima o poi donne che non vivranno in funzione dei loro bisogni, spirituali o materiali che siano. Ma questo è un argomento che riguarda la loro dipendenza, non la nostra”.
Sin dai banchi di scuola impariamo la cultura nelle sue varie declinazioni e ci formiamo su un catalogo del sapere nel quale le donne sono sistemate, secondo la visione patriarcale (alimentata spesso dalle stesse insegnanti), tra chi vale perché assolve alla funzione riproduttiva e chi è di seconda scelta, meno valida, fallata, sbagliata, mancante, monca e incompleta perché non madre. Le donne senza figli o figlie destano, nell’inconscio collettivo, il sospetto di qualche anomalia, un’incompletezza dolente, inquietante o provocatoria.
“Esaltazione della maternità e misoginia sono due facce della stessa medaglia”, scrisse Simone de Beauvoir nel capolavoro Il secondo sesso: come darle torto?
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