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Le parole del dolore

Le parole del dolore

Intervista a Edith Bruck - Esce il nuovo libro, Bruck premiata a Bologna con la “Targa ricordo Paolo Volponi"

Di Sabatino Guendalina Lunedi, 11/10/2010 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Ottobre 2010

Edith Bruck, la scrittrice italiana di origine ungherese deportata adolescente nei lager nazisti di Dachau, Bergen-Belsen, Auschwitz, è tra le più importanti autrici di cultura ebraica della letteratura europea. Dopo i successi del romanzo Quanta Stella c’è nel cielo propone ai lettori il suo ultimo libro Privato (Garzanti, 2010, pp. 185) composto da due lunghi racconti: il recente inedito Un mese dopo e Lettera alla madre pubblicato nel volume eponimo nel 1988, vincitore di più premi letterari. Due racconti, poesia ininterrotta, in cui gli avvenimenti narrati dalla scrittrice intrecciano in un’unica trama le tragiche vicende della sua vita al destino di milioni di ebrei in Europa, vittime delle persecuzioni razziali e del genocidio nazista. Due racconti in forma epistolare. Dialoghi immaginari con sua madre, bruciata nei forni di Auschwitz, e con suo fratello scomparso da poco in Brasile, sopravvissuto ai campi di sterminio.



Due lettere postume che raccontano il mondo degli affetti orribilmente reciso.

Non ho avuto mai il tempo di parlare né con l’una né con l’altro. In qualche misura ho prolungato la mia vicinanza con loro per dire ciò che non ho potuto dire mentre erano in vita. Un modo per far rivivere mia madre, per parlare e stare con lei il più a lungo possibile. Con le madri non è che si parlasse molto alla mia epoca, la mia aveva sei figli da curare, io ero la più piccola, e come tutti i figli del mondo ero desiderosa d’amore. Ma lei, come tantissime madri povere, non aveva tempo, aveva troppe preoccupazioni. Mio fratello non ha mai aperto bocca sui campi di concentramento. Lui ha visto morire mio padre. Avrei voluto sapere quello che ha detto, come ha pensato a noi, come ha vissuto l’internamento un uomo abbastanza fragile, povero, che ha lottato tutta la vita per la sopravvivenza, morto di stenti pochi giorni prima della liberazione, ma non potevo chiedere niente a mio fratello, piangeva. Anche l’ultima volta che l’ho visto, alla "tenera" età di 76 anni, non riusciva a parlare, non ce la faceva. È rimasto muto come molti sopravvissuti, e sicuramente ha sofferto molto più di me che, in parte, ho vomitato questo veleno che porto dentro attraverso la scrittura, attraverso la parola, anche una terapia per me.



In realtà sono lettere indirizzate al mondo.

Più che una cosa privata è una cosa universale che l’umanità non sa ancora abbastanza. È testimonianza, non credo che ci sia un privato e un pubblico. Io credo che tutto quello che abbiamo vissuto vada gridato, denunciato e testimoniato non solo per l’oggi ma per il futuro. Basta vedere quello che accade nell'intero pianeta. Anche se nulla, come diceva Primo Levi, può essere paragonabile e paragonato ad Auschwitz, perché è un unicum di quello che è accaduto nel Ventesimo secolo, nell’Europa cristiana, nel mondo ci sono tanti, tanti piccoli Auschwitz. E non finiranno mai, purtroppo.



Che cosa significa essere ebrea oggi, dopo Auschwitz?

È un forte sentimento profondo che non rinnegherei mai. È un sentimento, neppure una religione, una nostalgia di qualcosa che è scomparso, l’universo yiddish, la sua lingua ormai morta. È l’infanzia, il passato di cui hai una terribile nostalgia in continuazione perché l’ebraismo è cambiato molto nel mondo.



La “Casa dei pensieri“ di Bologna, nell’ambito della Festa dell’Unità, le ha assegnato la “Targa ricordo Paolo Volponi", un riconoscimento internazionale. Il quinto in un anno.

Volponi era una persona che oggi manca, uno scrittore impegnato nel sociale, le sue poesie e i suoi libri sono straordinariamente attuali. Ho avuto una grande stima per lui, che ho conosciuto e incontrato più volte. La Targa è molto importante per me perché porta il suo nome. Sono molto contenta, anche perché si ricorda un uomo di grande valore civile e morale.



(11 ottobre 2010)

 

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