Diario dall’India / sesta e ultima tappa - Nella megalopoli si intrecciano il traffico caotico, la povertà estrema e la solidarietà dei volontari di Madre Teresa. E’ un mondo di contrasti in cui le donne ripetono miracoli tutti i giorni.
Katia Graziosi Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2008
Il treno entra fischiando nella stazione di Calcutta, ha attraversato durante la notte lo stato dell’Orissa. Sono le otto del mattino e la foschia e lo smog attenuano i colori delle cose ad eccezione del rosso intenso delle giacche e dei copricapo dei facchini e del giallo dei taxi allineati lungo la strada.
Mentre raggiungiamo la zona centrale di Sutter Street, immersi nel traffico caotico che qui è una costante, osservo che tutti vanno di fretta. E’ una megalopoli con quattordici milioni di abitanti ed il fiume Hooghly che la separa sembra darle un po’ di respiro: barconi merci vi navigano lentamente.
Imponenti edifici di epoca coloniale reclamano restauri e ricordano un passato importante quando questa città era la capitale dell’impero britannico delle Indie orientali. Bandiere rosse con falce e martello sventolano da uno di questi edifici, forse è la sede del Communist Party, qui ancora molto forte. Incrociamo la statua di Ho Chi Minh e poi quella di Indira Gandhi, quest’ultima molto ricordata in tutta l’India.
Caotica, miserabile nelle sue tendopoli, avvolgente e con un’aria da aristocratica decaduta, Calcutta, è l’unica città dell’India che tributa ai suoi colonizzatori un imponente Memorial in onore della Regina Vittoria. E’ anche la culla da cui nasce gran parte del pensiero anticolonialista, indipendentista e pacifista, unico nel suo genere. Vi è un grande fascino in tutto ciò. E stupisce per gli ultimi uomini-risciò ancora presenti nelle viuzze centrali e per gli immensi parchi pubblici in cui scorazzano liberi capre, pecore e cavalli. I vagabondi dormono sui prati dove scorazzano giocatori di cricket in pantaloni bianchi. Qui ho notato alcune coppie di giovanissimi innamorati abbracciati come se ne vedono nei nostri parchi. Un fatto singolare in questo Paese.
Assistiamo a tradizionali riti religiosi con la venerazione della dea Kali, che richiede sacrifici di sangue – con conseguente decapitazione di capre – nel tempio affollatissimo di Kalighat, da cui usciamo stravolti fra la ressa umana dei devoti che si accalcano. A pochi metri dal tempio la casa dei moribondi di Madre Teresa di Calcutta.
Varchiamo la soglia con timore: la morte è lì in attesa. Ci accoglie una suora giovane e sorridente, ci saluta e subito scompare dietro una porta. Davanti a noi letti allineati con donne e uomini coricati: sono i moribondi raccolti nelle strade. Vi è un silenzio assordante, il mio cuore corre veloce e non so dove posare lo sguardo. Ragazze e ragazzi occidentali che indossano una divisa azzurra li assistono. Sono volontari che provengono da tutto il mondo. Li abbiamo già incontrati nelle strade. Ci allontaniamo da questo luogo di miseria e sofferenza che restituisce dignità e solidarietà e che lancia anche un messaggio di speranza: questi giovani ne sono la testimonianza più diretta ed autentica. Il nostro viaggio finisce qui.
Sono sull’aereo che ci riporta a casa e la mia mente non vuole lasciare l’India. Luoghi,situazioni e immagini si mescolano.
Abbiamo macinato migliaia di chilometri,visto popolazioni differenti, camminato in vicoli angusti e sporchi dove la gente ti sorride e ti dice una parola gentile. Ci sono stati giorni in cui non se ne poteva più di richieste continue di elemosina, ma qui ci sono tanti poveri e tutti devono pur mangiare. Un esercito di diseredati che nonostante tutto riesce a dare un senso compiuto alla propria vita, in cui quotidianità e spiritualità si fondono in un legame indissolubile. E le orrende mutilazioni fisiche, esposte a tutti, superano ogni immaginazione.
Poi i templi a testimoniare la loro presenza secolare, nonché fondamentale, nella cultura indiana in contrasto con la caotica realtà delle grandi metropoli, e ancora i colori accesi delle vesti e dei pigmenti, e i villaggi rurali che sfamano la popolazione grazie alla fatica di tante donne.
I bambini, meriterebbero interi album di immagini. Occhi che accendono qualsiasi cosa, spesso infanzia negata che però non ha tolto loro il sorriso e la voglia di giocare.
Quanti aquiloni nei cieli indiani, sono di fattura rudimentale, modesti nelle dimensioni ma volano alti. E’ ancora uno dei giochi preferiti e te ne accorgi vedendoli bloccati sugli alti alberi e oramai irrecuperabili.
E’ stato bello vederli volare sul grande fiume Gange, la vita e le urla dei bambini a pochi metri dalle pire che bruciano i morti: vita e morte inscindibili nella cultura indiana. E’ questo un paese che ti apre a riflessioni inedite.
L’ultimo ricordo prima di addormentarmi. Siamo seduti sull’erba di un parco, arrivano sei donne senz’altro musulmane, con viso e capo coperti da un fitto velo nero com’è anche l’abito che indossano; con loro una piccola bambina di circa tre anni. Si siedono vicine a noi, la piccola strilla, fa capricci e la mamma non riesce a calmarla. Io mi giro, prendo dallo zaino delle caramelle e le porgo alla bambina. Il mio gesto produce in queste donne curiosità e soprattutto voglia di comunicare. Si tolgono immediatamente il velo con un gesto disinvolto e liberatorio che mi lascia stupita. Bellissimi visi giovani mi sorridono, le loro mani cercano le mie e le stringono. Si instaura un clima di complicità che solo le donne sanno esprimere. Mi sembra di ritrovare delle amiche, così mi sistemo seduta fra di loro e provo a parlare dei miei nipotini. Riusciamo - nonostante le difficoltà linguistiche ed in un inglese sgangherato – a parlarci e ridiamo divertite. Ci accorgiamo che il sole sta tramontando, il tempo è volato. Che bel pomeriggio !
E’ il momento dei saluti, mi abbracciano e si allontanano coprendosi il viso con il velo nero.
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